Le confessioni di Filippo
Episodi tristi e lieti hanno segnato l’ultimo periodo di Nek. E da qui è nato il suo cd più intimo e personale, suonato tutto da solo...
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Episodi tristi e lieti hanno segnato l’ultimo
periodo di Nek. E da qui è nato il suo cd più intimo e personale, suonato tutto
da solo.
Il nuovo cd ha un suono essenziale, basato
sui tre strumenti fondamentali del rock: chitarra-basso-batteria.
Felicità. Dolore. È tra questi
estremi che, di solito, si snoda la vita, con i suoi inevitabili alti e bassi.
Una linea che comunque non è mai piatta, che segue l’andamento degli stati d’animo. Vale per tutti, artisti compresi.
Come Nek, che
ha realizzato il suo ultimo cd avendo ben presenti nel cuore e nella mente quei
“sentimenti-limite”: la felicità, per la nascita della figlia Beatrice; il dolore, per la scomparsa del
padre Cesare.
È scaturito da
questi due episodi l’album probabilmente più “personale” della sua
brillante carriera, non a caso intitolato con il suo nome e cognome, Filippo
Neviani.
Un lavoro talmente “intimo” che lo ha
voluto incidere da solo, suonando tutti gli strumenti. Si aggiunge così un altro, diverso tassello al suo lungo percorso, che
ormai dura da 22 anni, contrappuntati da oltre 8 milioni di cd venduti in tutto
il mondo.
E già, perché spesso si
dimentica che Nek è una star
internazionale, che si è guadagnato la
grossa popolarità non solo dalle nostre
parti, ma anche in Europa e America Latina.
Merito della sua formula, bilanciata tra pop e rock, che
ha trovato il suo perfetto equilibrio nel 1997, l’anno della svolta
definitiva con l’album Lei, gli amici e tutto il resto
che, trainato dal superhit Laura non c’è, vende più di 2 milioni di copie.
Da quel momento, Nek non si è più fermato, sfornando un cd di successo dietro l’altro,
levigando il suo sound che, di volta in volta, si arricchiva di nuovi stimoli e
significative variazioni.
Adesso è il turno di Filippo Neviani, con canzoni che spaziano tra differenti
sollecitazioni sonore, dal rock ruvido al pop di alta qualità, dal funky al country. Generi che Nek maneggia con grande
personalità per esprimere al
meglio ciò che “sente” dentro di sé. Riuscendoci in pieno.
Tempo fa avevi detto che volevi fare un disco tutto
da solo. Hai tenuto fede alla promessa...
È un’idea, questa, che arriva da
molto lontano. Fin da quando, nel 1990, sono entrato per la prima volta in una
sala di registrazione: già allora ho sentito il desiderio di realizzare
un album suonando ogni strumento. Finalmente, ci sono riuscito. È nato così il mio disco più “sentito”, più personale.
Quale “profilo” hai voluto dare al cd?
È senza
dubbio il mio lavoro più
artigianale. Ha una sonorità essenziale, che si dipana tra i tre strumenti
fondamentali del rock, chitarra-basso- batteria. Ho volutamente escluso le
tastiere e ogni marchingegno elettronico, che spesso risolvono parecchi
problemi armonici, e sfruttato al massimo le potenzialità delle chitarre per colorare i brani. Certo,
mi sono un po’ complicato la
vita, ma è stato
un... viaggio emozionante e interessante.
Deve essere stata una bella sfida...
Ormai
ci sono abituato, ogni album è una sfida. Non nascondo che mi piace
mettermi alla prova affrontando esperienze nuove perché credo siano stimolanti per me e per chi mi
ascolta. Inoltre, mi permette di allargare i miei orizzonti e magari di
raggiungere una fetta di pubblico che non mi seguiva.
Alla base di questa scelta c’era qualcosa, in passato,
che non ti convinceva?
Non
rinnego nulla di quanto fatto. Tuttavia, è indubbio che quando lavori con altri si
perde un po’ per strada
quella magia iniziale da cui scaturisce un brano. Ogni volta dovevo trasferire la
mia idea ai musicisti, i quali la codificavano naturalmente secondo la propria
sensibilità. Inevitabilmente,
il risultato finale era comunque diverso da ciò che avevo in mente. Qui, non ho disperso
alcuna energia.
Non ti è mancato il confronto e la complicità che
si crea con i musicisti?
Mi è sempre piaciuto interagire con altri
artisti, soprattutto negli album, ma questa volta vole- vo
proprio capire fin dove potevo arrivare per conto mio. Mi hanno dato comunque
una mano il fonico e il produttore in questa impresa ciclopica e impegnativa. È stato come far crescere un bambino, sempre
con grande entusiasmo.
Non hai
mai avuto timore di non farcela?
Certo, in modo particolare
quando dovevo andare alla batteria. Poi però ho capito che non era necessario fare il virtuoso,
ma essere lineari. Alla fine, la semplicità paga sempre, soprattutto quando è al servizio della canzone.
Ascoltando
il cd, si ha l’idea che tu stia abbandonando il terreno del pop. È un’impressione
giusta?
Sono stato inquadrato come artista pop, e non
c’è nulla di male, sia chiaro, ma ho sempre amato
le contaminazioni. In questo album, c’è un’incisività rock che in passato mancava, frutto anche
dell’ultimo tour compiuto, dove mi sono esibito con il gruppo che ho
denominato Quartet, una formazione appunto stringata dove mancavano le
tastiere.
Hai
parlato di contaminazioni, e in questo lavoro non mancano: c’è il rock, certo,
ma anche il country e il funk. Da dove arrivano le sollecitazioni sonore?
Dai viaggi e dall’ascolto di tanta musica. Nei ringraziamenti del disco c’è anche Virgin Radio, l’emittente radiofonica che mi ha fornito molti spunti con la sua
programmazione alternativa e prevalentemente rock. Ho sentito parecchi gruppi,
di ieri e di oggi, di cui ignoravo l’esistenza e che mi
hanno aiutato nello studio delle sonorità da dare ad alcuni dei miei brani. Mi
ritengo, insomma, un osservatore del mondo: quello che ricevo provo poi a
trasmetterlo.
Apri il
cd con Hey Dio, un brano dalla forte connotazione religiosa.
Come mai?
È nato
come uno sfogo nell’osservare l’attuale periodo storico, dove si stanno smarrendo dei valori
importanti. Non può fare sempre notizia il male o il negativo, e
tacere su quanto di buono fanno in tanti. È una realtà distorta. Nella canzone, mi rivolgo a Dio
come fosse mio padre, per risolvere i dubbi. E la risposta che si può trovare è una sola: l’amore, per
come mi è stato
insegnato da credente. E questo amore passa attraverso il rispetto per il
prossimo e la condivisione. Se fossimo più attenti verso gli altri la nostra vita
sarebbe più
ricca. Bisogna capire che non bastiamo a noi stessi.
Un
messaggio che, purtroppo, sembra perdersi nel chiasso del mondo, come accenni anche
nel pezzo Soltanto te.
Siamo storditi da un mare di input inutili.
Si deve badare di più all’essenzialità delle cose, anche se so benissimo, io per
primo, che non è
facile. Penso alla profezia dei Maya, quando rimbalzava nei media. Seppur priva
di fondamenti, per un momento, la notizia ha fatto prendere coscienza del
nostro egoismo, ci siamo sentiti fragili, poi tutto è tornato come prima. Eppure, quando lotti in
ospedale contro un brutto male, tante cose che sembravano importanti, perdono
di significato. Allora perché affannarsi a far diventare il superfluo
quasi un punto di riferimento?
In tale
ottica, assumono importanza due fatti di valenza opposta che hanno coinvolto la
tua vita nella realizzazione del cd: la nascita di tua figlia e la scomparsa di
tuo papà.
Sono convinto che Beatrice non sia un caso,
che sia servita a colmare un vuoto che si sarebbe verificato di lì a poco. Lui, nonostante gli avessero dato
sei mesi di vita, ha resistito due anni, e anche questo non è un caso. Non è riuscito purtroppo a stringere tra le mani
questo album: desiderava vedere sulla copertina il cognome di famiglia. Ho solo
potuto dedicarglielo.
Claudio
Facchetti