BASTA SCHIAVI

 Lincoln abolisce schiavitù negli Usa il 1° gennaio 1863 “Ecco la piccola donna che ha scatenato questa grande guerra”: così Abraha...

 Lincoln abolisce schiavitù negli Usa il 1° gennaio 1863



“Ecco la piccola donna che ha scatenato questa grande guerra”: così Abraham Lincoln avrebbe detto ad Harriet Beecher-Stowe. Lui, il presidente americano che 150 anni fa, in piena guerra civile, abolisce la schiavitù. Lei, l’autrice de “La capanna dello zio Tom” (1811-1896). Il suo romanzo sulla sofferenza degli schiavi neri e sull’amore cristiano capace di perdonare, ha commosso così tanti loro contemporanei da contribuire alla sconfitta dei Confederati o Sudisti. Proprio come “Le mie prigioni”, le memorie scritte da Silvio Pellico, danneggiarono l’Austria più di una guerra perduta.
Lincoln nasce il 12 febbaio 1809, a Hodgenville, nel Kentucky. Avvocato di professione, nel 1861 è nominato sedicesimo presidente degli Stati Uniti. È uno dei più importanti politici del Paese, tanto che il suo volto è scolpito nel Monte Rushmore, accanto a quelli di altri tre “padri della patria”: George Washington, Thomas Jefferson e Theodore Roosevelt. È Lincoln, infatti, ad abolire la schiavitù: prima con la “proclamazione dell’emancipazione”, in vigore negli Stati dell’Unione dal 1° gennaio 1863, e poi nel 1865 quando, vinti i Confederati e conservata l’unità della nazione, ratifica il tredicesimo emendamento della Costituzione. È assassinato a Washington il 14 aprile 1865, Venerdì Santo, da un fanatico sudista, l’attore John Wilkes Booth.
Per molti storici, se non ci fosse stata la guerra di secessione, lo schiavismo sarebbe continuato a lungo. Di certo, l’emancipazione e l’emendamento voluti da Lincoln hanno avuto una risonanza tale all’epoca e dopo, che per tante persone la schiavitù è stato un problema quasi soltanto degli Stati Uniti. Al contrario: in vari Paesi, spesso islamici, la schiavitù è stata dichiarata illegale soltanto pochi anni fa. Ma andiamo con ordine, anzi iniziamo con tre “parentesi”.
La prima: con buona pace di alcuni commentatori, la storia va valutata non con la cultura di oggi, ma “immergendosi” nel periodo in esame. Per esempio, il codice di Hammurabi, il babilonese che regnò dal 1792 al 1750 a.C., divideva la popolazione in tre classi - awilum (uomo libero), muskenum (semilibero) e, appunto, wardum (schiavo) - e adottava la “legge del taglione”, praticata anche dagli antichi ebrei: occhio per occhio, dente per dente. All’epoca, questa norma era all’avanguardia (non ci si vendicava di persona, né si uccideva sempre il colpevole) ed era uguale per tutti, anche quando cambiava il giudice. Oggi, invece, il “taglione” (ancora praticato dalla sharia islamica) ripugna alla cultura occidentale.
Secondo aspetto: la schiavitù era “normale” nella civiltà greco-romana, nel mondo ebraico e quindi, ai tempi di Gesù. Nella Bibbia questa parola compare 59 volte e schiavo (o schiava, e relativi plurali) è presente 314 volte. Terza parentesi: la parola schiavo non è precristiana, ma deriva da un termine medievale greco (sklavos), poi latino e infine veneziano (s-ciavo), che identificava persone di etnia slava, usate come manovalanza a basso costo, o vendute dalle stesse famiglie a mercanti veneziani e arabi. En passant, ancor oggi le cronache riferiscono di ragazzi e donne dell’Est “venduti” e poi avviati a lavori umili o alla prostituzione.
Nel Medioevo, la schiavitù esiste sia in Africa, dove prospera, sia in Europa, dove i pro e i contro si alternano per secoli. Carlo Magno proibisce ai cristiani di usare altri cristiani come schiavi. Poi, la Chiesa riesce a ridurre la schiavitù estendendo i sacramenti a tutti. Con l’espansione musulmana, i turchi gestiscono un fiorente commercio: migliaia di europei sono razziati e usati come manovali e soprattutto come rematori nelle galee (le donne, domestiche o concubine). Queste scorrerie diminuiscono con la vittoria cristiana a Lepanto (1571).
Nel frattempo, la scoperta del Nuovo Mondo e il conseguente sfruttamento minerario e agricolo, provoca un’enorme richiesta di forza lavoro. Così, i mercanti musulmani fanno razzie nel continente africano e portano gli schiavi sulle coste; lì, navi portoghesi, spagnole, danesi, polacche, olandesi, francesi e inglesi li trasferiscono nelle colonie. La Chiesa all’inizio tollera; poi, si oppone. Il vescovo Bartolomé de Las Casas (1484-1566), per esempio, difende i nativi americani e si schiera a fianco degli africani schiavizzati nelle colonie spagnole; grazie a lui, l’imperatore Carlo V abolisce le “encomiendas”, aziende agricole basate sul sistema schiavistico. Poi, nel 1537, con la bolla “Sublimis Deus”, papa Paolo III dichiara che gli indios sono esseri umani e scomunica tutti quelli che li riducono in schiavitù. Queste e altre voci sono, però, disattese: la tratta prospera e raggiunge il culmine nel Settecento.
Tra i primi Paesi ad abolire la schiavitù ci sono Polonia e Lituania. Poi ci sono casi insoliti. La Francia lo fa nel 1794 sotto l’impulso della Rivoluzione, nel 1802 Napoleone la reintroduce e nel 1833 c’è l’abolizione definitiva. In Inghilterra non ci sono più schiavi dal 1569 (ma esistono nelle colonie), il commercio è vietato nel 1807, ma l’emancipazione avviene nel 1833. E comunque, alcuni Stati europei fanno della lotta allo schiavismo un pretesto per espandere le colonie in Africa.
Non solo. Abolita la schiavitù, non sempre i “neri” vedono riconosciuti i loro diritti nella vita quotidiana. Negli Stati Uniti, ancora mezzo secolo fa, esistevano forme di discriminazione. Per questo, il pastore protestante Martin Luther King sostiene la lotta non violenta contro ogni pregiudizio etnico, al punto da ricevere il premio Nobel per la Pace nel 1964; ma è assassinato nel 1968, a soli 39 anni. E in Sud Africa, dal secondo dopoguerra al 1993, il governo bianco attua l’apartheid, rigorosa segregazione verso la gente di colore, abolita grazie alle pressioni internazionali, alla liberazione di Nelson Mandela e la sua successiva elezione a capo dello Stato.
In ogni caso, la strada che porta all’abolizione mondiale della schiavitù è lunga. Alcuni fatti: il Messico la decide nel 1829; gli Stati Uniti d’America nel 1863, grazie appunto a Lincoln; nel 1885, il Congresso di Berlino la condanna come contraria ai diritti dell’uomo; la Cina la vieta a partire dal 1910; nel 1926, con la Convenzione internazionale sulla schiavitù di Ginevra, la Società delle Nazioni proibisce il commercio di schiavi e condanna la schiavitù in tutte le sue forme; in Etiopia è abolita nel 1935, a seguito della conquista italiana; nel 1948, la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, firmata dai Paesi aderenti all’Onu, condanna di nuovo la schiavitù. Bisogna attendere, però, il 1962 perché sia abolita in Arabia Saudita, il 2003 perché in Niger una legge condanni le pratiche schiaviste e addirittura il 2007 perché il governo della Mauritania ribadisca per la terza volta che la schiavitù è illegale e criminalizzi il possesso di schiavi.
E oggi? A 150 anni esatti dalle leggi americane, verrebbe spontaneo dire “tutto bene”, con un caloroso “grazie” anche a Lincoln. Invece, no. Basta scorrere i rapporti dell’Ocha (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, delle Nazioni Unite) o del Dipartimento di Stato americano, nella cui “lista nera dei Paesi più problematici fanno parte anche Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Libia, Corea del Nord e Arabia Saudita”. E poi, le denunce di molte Conferenze episcopali e di organizzazioni quali Amnesty International, Terre des hommes od Antislavery.
Basta consultare, ad esempio, il sito di quest’ultima (www.antislavery.org/italian): “La schiavitù contemporanea prende molte forme e riguarda persone di tutte le età, sesso e razza (…) La schiavitù per debito riguarda almeno 20 milioni di persone in tutto il mondo (…) Decine di milioni di bambini nel mondo lavorano a tempo pieno, e pertanto privati dell’istruzione e del gioco, elementi fondamentali per il loro sviluppo individuale e sociale (…) I bambini sono spesso rapiti, comprati o spinti ad entrare nel mercato del sesso (…) Spesso, donne migranti vengono ingannate e costrette a lavorare come domestiche o prostitute”. Una realtà ribadita da Valerio Castronovo sul quotidiano “Il Sole-24 Ore” del 5 agosto 2012: “Altre prevaricazioni oppressive dei diritti umani più elementari si sono intanto propagate: come la servitù da debito, il lavoro forzato sotto minaccia e intimidazioni, la prostituzione coatta di donne e adolescenti, il reclutamento con la violenza di bambini-soldati in conflitti armati intestini, la compravendita di tanti diseredati per il prelievo e il commercio di organi umani, l’impiego di adulti e minori buttati sul lastrico per l’organizzazione dell’accattonaggio”. Da restare a bocca aperta. Anzi, da piangere.

Camilla Furno

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