E dopo?

Verso dove siamo incamminati? Tutto il nostro agitarci a cosa serve? Ci aspetta qualcosa o il solo nulla abbraccerà le nostre convulse pa...


Verso dove siamo incamminati? Tutto il nostro agitarci a cosa serve? Ci aspetta qualcosa o il solo nulla abbraccerà le nostre convulse passioni?
«La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo e poi scompare, una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla». Così Shakespeare nel Machbeth. Il grosso interrogativo che lacera le coscienze: «E dopo ?». Finita la commedia, finita la favola, cosa rimane? Appunti per il dopo. È il titolo di un volume pubblicato da Giuliano Ferrara nella collana de “I libri del Foglio”. «È del dopo che vogliamo parlare» dice Ferrara. Il “dopo”, quando la vita si chiude e si apre il sepolcro, quando sono finite le preghiere e i discorsi, e il silenzio cala sulla tomba di poveri e di potenti. Cosa rimane? Ricordo la sepoltura di Giovanni Agnelli. Le macchine dei tanti parenti salivano in un’alba nebbiosa, erano le sei dei mattino, al piccolo cimitero di montagna di Perosa Argentina, la terra avita degli Agnelli. Nel silenzio mattutino una preghiera del parroco e la bara scivola nel loculo. E dopo?
 Nel volume, pensieri e riflessioni divergono. C’è chi pensa: dopo c’è il nulla, tutto è finito. C’è chi afferma che qualcosa deve pur rimanere, non si può sparire così, senza lasciar traccia. E c’è chi, nella fede, pensa che si aprano le porte di una vita nuova, piena, felice. In Dio. Ferrara ha invitato a scrivere una cinquantina di intellettuali: giornalisti, scrittori, politici, registi, filosofi, teologi. L’impressione globale è che si tratti di un grande carosello che esplora il senso della vita, della morte e del “dopo” morte, in tutte le culture. Gli interventi vanno dal mondo ebraico alle piramidi d’Egitto, dalla Grecia di Platone e Saffo alla Roma di Seneca ed Epicuro, da Leopardi a Pasolini, dalla contestazione del ’68 a Spoon River, da Ingmar Bergfede man agli scrittori inglesi e americani, dall’Ulisse omerico all’Abramo biblico, fino a Tolkien. Ceronetti, nel suo intervento, cita Ingmar Bergman. «Siccome – scrive il grande regista svedese – non posso né voglio immaginarmi un’altra vita, una sorta di vita dall’altra parte del confine, la prospettiva è agghiacciante. Vengo trasformato da qualcuno in nessuno. Questo nessuno non conserva neppure la memoria di un’intimità erotica». E Ceronetti conclude con un accenno ad Heidegger e alla sua tesi fondo: «Essere è essere per la morte». E dopo? Dalle piramidi egizie all’isola di Pasqua Due testimonianze mi hanno colpito in modo particolare.
 La prima è quella di Aldo Piccato, egittologo e archeologo. «Non esiste al mondo popolo che si sia occupato più a fondo della morte durante la vita di quello dell’Antico Egitto. La morte era senza dubbio sempre presente nel corso della vita dell’egizio. Ma non c’è nulla di più sbagliato della convinzione che gli egizi fossero un popolo ossessionato dalla morte». E qui Piccato cita l’osservazione di un viaggiatore greco della fine del IV secolo a. C., Ecateo d’Abdera. «Gli egiziani – nota Ecateo – non danno importanza al tempo passato nella vita terrestre e danno invece enorme valore al tempo successivo alla morte. Infatti mentre chiamano le case dei viventi “luoghi di sosta” per significare che vi abitano soltanto per un breve periodo, le tombe dei morti le chiamano “case dell’eternità” perché vi si trascorre un tempo infinito». Commenta Piccato: «Ecateo aveva notato che gli egizi costruivano le proprie abitazioni con mattoni di fango seccati all’aria, il materiale edilizio più semplice ed economico. Anche il palazzo del faraone era dello stesso materiale. Invece le tombe e i templi degli dèi erano di pietra. Insomma – conclude Piccato – qui il “dopo” non potrebbe essere più concreto: è la tomba». La seconda testimonianza ci viene offerta da Massimo Camisasca, folgorato da don Giussani quando era studente al Berchet di Milano, culla di Cl. «L’esigenza di un “oltre” – annota Camisasca – è inscritta dentro di noi. E non è un’illusione, perché accomuna la stragrande maggioranza degli uomini di tutti i tempi. Ero stato invitato, mentre mi trovavo in Cile, a visitare l’isola di Pasqua. Un frammento di roccia sperduto nell’immensità del Pacifico, dieci o ventimila abitanti. Ma per loro era il mondo. Ed essi erano l’unico popolo del mondo. Me li vedo sulla riva dell’oceano a pensare: da dove veniamo? dove andremo? Cercarono un aiuto e lo trovarono negli antenati, da soli arrivarono a questa certezza: con la morte non tutto finisce. C’è un legame tra l’aldilà e l’aldiqua. E costruirono i Mohai, immensi busti scolpiti nella pietra lavica che, distesi su tronchi di palma, trascinavano sulle rive rocciose dell’isola, con i volti rivolti verso l’interno, quasi a dire: il nemico viene da te, non dall’oceano, dal di fuori. I Mohai non salvarono quel popolo. Ma ciò che conta è che da soli quei pochi uomini che non avevano avuto né Platone, né Aristotele, né Mosè tra di loro, erano arrivati alla scoperta di una vita oltre la morte». L’Ulisse omerico e l’Abramo biblico Il discorso del “dopo” acquista un valore ancor più grande presso i credenti. Sono una metà circa le testimonianze che rientrano, più o meno largamente, nell’area di una visione cristiana del problema. Nomi noti come Gianni Baget Bozzo, Lucetta Scaraffia, Eugenia Roccella, Giovanni Gennari, Massimo Camisasca, e nomi meno noti al gran pubblico, ma ugualmente validi. Mi soffermo su Andrea Monda perché dalla sua cattedra di liceo è a contatto più diretto con i giovani. Monda spinge lo sguardo verso il futuro, di cui è carica la Bibbia. «L’Apocalisse ci dice qualcosa di forte, di nuovo, che la storia umana ha una fine e, ancor più, un fine. Che, insomma, esiste un futuro. Il mondo pagano non conosceva l’idea del futuro, questo fede dic2012. è uno dei tanti contributi che il testo biblico ha dato all’umanità. All’Ulisse omerico la Bibbia risponde con Abramo, il vero viaggiatore. Se l’Ulisse omerico viaggia solo per tornare alla sua casa, e il suo viaggio è un ritorno al passato (Itaca, Penelope), Abramo fa il salto in avanti verso il futuro. “Il Signore disse ad Abramo: Vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò”. Ecco che il futuro e la speranza entra con prepotenza nella storia umana e questa irruzione ha generato molti figli in questi tremila anni di storia intrisi di giudai giudaismo e di cristianesimo. Che cos’è il messianesimo del marxismo se non un figlio spurio di questa idea di futuro?». Il segnale di una svolta radicale nella storia del nostro tempo non è l’Ulisse di Joyce, icona della letteratura del Novecento, ma Il Signore degli anelli di Tolkien che con il suo protagonista, lo hobbit Frodo Raggins, ha ricreato il mito di Abramo. Tolkien stesso sostiene che scopo del suo racconto è narrare una storia che mostri il superamento di un mondo chiuso, il superamento del fatalismo pagano, del tempo circolare che si riavvolge sempre su se stesso senza vere novità, come le stagioni, mentre la visione cristiana è aperta al futuro, punta su un tempo lineare che, come una freccia, vola verso il bersaglio finale, l’avvento del Regno di Dio su una terra trasfigurata.
 All’Ulisse omerico la Bibbia risponde con Abramo, il vero viaggiatore, in quanto viaggia verso il futuro o ciò che non conosce
 Risurrezione: la grande festa cosmica dell’uomo e dell’universo Siamo tutti in cammino, come Abramo, verso il paese di Dio, la terra della risurrezione. Il “dopo” del cristiano è Cristo crocifisso e risorto. Non ci attende il Nulla ma il Tutto, la pienezza di vita in Dio. Sono due millenni che la Risurrezione di Cristo è sotto attacco, perché, crollata quella, tutto il cristianesimo si sfascia. Lo diceva già San Paolo: «Se Cristo non è risorto, la vostra fede è un’illusione e voi siete ancora nei vostri peccati» (I Corinzi 15, 17). È la risurrezione di Cristo che garantisce la risurrezione dell’ uomo e, insieme, la rigenerazione del creato. La vita eterna, il “dopo” di Giuliano Ferrara, non sarà una noia eterna, come temono Gide e soci. Sarà la grande festa cosmica dell’uomo e dell’universo. Una festa di amore.Il vecchio Urs von Balthasar, uno dei grandi teologi del nostro tempo, ritrovava la freschezza di un giovane quando scriveva al termine del suo Credo: «Come sulla terra ci sono esplosioni di amore prima ancora che l’amore si tramuti in conoscenza, assuefazione e forse sazietà, così la risurrezione significa una immensa svolta, dal vuoto alla pienezza », dal vuoto di essere e di amore alla pienezza di essere e di amore. Un’esplosione d’amore da innamorati al primo colpo d’occhio di fronte a un Dio che è esplosione di amore eternamente giovane, e che vuole introdurci nell’intimità d’amore della sua famiglia trinitaria. E allora non ditemi che in Paradiso si morirà di noia a cantare salmi e ad agitare palme tra fumi d’incenso.
 Lorenzo Grosso

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