GIOVANNI PASCOLI

Un poeta travagliato dalla vita intensa e mesta che ha segnato la letteratura italiana. Uno spirito inquieto che cercava nella na...

Un poeta travagliato
dalla vita intensa
e mesta che ha segnato
la letteratura italiana.
Uno spirito inquieto
che cercava nella natura
una pace che troverà
solo in un barlume di fede.


Giovanni Pàscoli! Chi era costui? Sono tante le cose scritte e dette su di lui, e le altre in programma per i cent’anni della sua morte, il 6 aprile. Perché tutti tentano di appropriarsi di un pezzo della sua vita. Dal Comune di nascita (San Mauro di Romagna, oggi San Mauro Pàscoli, provincia di Forlì-Cesena) a quelli della morte (Bologna) e di sepoltura (Castelvecchio, frazione di Barga, provincia di Lucca, oggi ovviamente rinominata Castelvecchio Pàscoli). Dai socialisti d’Ottocento agli interventisti della guerra italo-turca (1911). Da chi lo definisce “il” poeta del Decadentismo a chi ne loda il Classicismo. Da chi lo definisce cantore della vita semplice e naturale, quasi ecologista ante-litteram, a chi annota che lui ha insegnato sempre e soltanto in città. Dai molti che sottolineano l’aria di fanciullino a chi rovista nel suo affetto per una o entrambe le sorelle minori. Dai massoni, che ricordano l’iniziazione nel 1882, ai cattolici, per i quali la sua poesia si colloca “tra francescanesimo ed umanitarismo” (L’Osservatore Romano).
Insomma ce n’è per tutti. Quindi, più che soffermarci sulle sue poesie, conosciute-imparate-amate-odiate sui banchi di scuola, proviamo a ripercorrere la sua vita.

Una tragica infanzia
Giovanni Placido Agostino Pàscoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, quarto di otto figli (altri due muoiono molto piccoli). Sono maggiori di lui Margherita, Giacomo e Luigi; dopo, arrivano Raffaele, Giuseppe, Ida e Maria. Il padre, Ruggero, è amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia; la madre, Caterina Allocatelli, è discendente di un nobile casato. Per inciso, il Comune all’epoca fa parte della Legazione pontificia di Forlì, nello Stato della Chiesa; nel 1932, cambia il nome in San Mauro Pascoli; oggi, a parte il richiamo al poeta nella denominazione, la località si definisce “il paese dei calzolai, famoso in tutto il mondo per la produzione di scarpe di alta moda”.
A sette anni, Giovanni è mandato con i fratelli Giacomo e Luigi a studiare nel Collegio Raffaello di Urbino, retto dai padri Scolopi. Il 10 agosto 1867, giorno di san Lorenzo, Ruggero Pascoli, mentre in calesse torna da Cesena, è assassinato con una fucilata. L’omicida resta ignoto, ma in famiglia ci sono forti sospetti, tanto che nella poesia “La cavalla storna” Giovanni scrisse: Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: / disse un nome… Sonò alto un nitrito. La famiglia deve lasciare la tenuta e perde il benessere economico. Per Giovanni, è un trauma che lo segna per tutta la vita. Come non bastasse, seguono altri lutti: l’anno dopo muoiono la sorella Margherita e la madre e ancora, nel 1871, il fratello Luigi. Giacomo, trovatosi capofamiglia, prima riunisce tutti a Rimini; l’anno dopo si sposa, torna a San Mauro e sistema Giovanni a Firenze per terminare gli studi liceali, Raffaele a Forlì, Giuseppe ad Ancona, mentre Ida e Maria vanno dagli zii e poi in un istituto religioso. Nel 1876, muore anche Giacomo, di tifo. La famiglia è dimezzata e praticamente senza reddito.

L’esperienza politica
Poi, continua e piovere sul bagnato. Giovanni frequenta ambienti anarchico-socialisti e partecipa a manifestazioni politiche, perdendo la borsa di studio ottenuta nel 1873 per frequentare la facoltà di Lettere all’Università di Bologna. Nel 1878, grazie all’interessamento di Giosuè Carducci, suo docente, che ha capito le eccezionali doti dell’allievo, insegna al ginnasio comunale; ma già l’anno dopo è arrestato per attività sovversive, salvo essere assolto grazie a un altro intervento del Carducci. Nel 1882, finalmente, si laurea con una tesi sul poeta greco Alceo. Nello stesso anno, aderisce a una loggia massonica bolognese. Poi, vince alcuni concorsi che lo portano ad insegnare in licei di Matera, Massa e poi Livorno. Inizia a pubblicare le prime poesie, raccolte in Myricae: il libro (prima edizione nel 1891, via via ampliata) prende nome da una egloga di Virgilio, e le umili myricae sono le “tamerici salmastre ed arse” cantate dal d’Annunzio, ne “La pioggia nel pineto”. Nel 1892 vince la prima delle dieci medaglie d’oro al Concorso di poesia latina di Amsterdam, e Gabriele d’Annunzio gli dedica positive recensioni, facendolo conoscere a un pubblico più ampio.
Nel frattempo, Giovanni Pascoli cerca in tutti i modi di realizzare il suo sogno: ricostruire il “nido” familiare. Nel 1885, le sorelle Ida e Maria si trasferiscono a Massa, da lui. Grazie anche alla loro vicinanza, egli trova - come è stato scritto - “un nuovo linguaggio poetico, propenso a regredire in moduli infantili, in arguti balbettii. Nascono i sonetti «mariuccevoli», le liriche cosiddette «famigliari» in cui è gran parte dell’originalità del poeta”. Dal 1887 insegna a Livorno, ma già l’anno dopo il “nido” a tre è minacciato dai possibili fidanzamenti sia di Giovanni, sia di Ida; in nome della vita insieme, però, entrambi rinunciano. Comprensibilmente, questo “ménage” non può continuare a lungo. Quando, nel 1895, Ida si sposa (e di questo diremo tra poco), Giovanni la considera fedifraga e, disperato, si trasferisce a Roma, dov’è raggiunto da Maria.

Un nido familiare
Nello stesso anno, lui acquista una villetta con giardino e podere, a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca. In quella casa lui vive e torna in ogni momento libero dall’insegnamento, accudito sempre e soltanto da Maria. Anzi, si può dire che psicologicamente lui non “esce” più da quella casa, anche se continua a pubblicare poesie e articoli, a svolgere conferenze e anche se nel 1905 accetta di succedere a Carducci all’Università di Bologna: per lui, questo incarico è un “risarcimento” delle tante sfortune, a cominciare dall’assassinio impunito del padre. Il legame con Castelvecchio e con la sorella è tale che quando lui muore a Bologna, il 6 aprile 1912, Maria lo vuole sepolto nella cappella annessa alla villetta. Altrettanto avviene per lei: continua a vivere in quella casa, fedele custode delle memorie e degli scritti del fratello, del quale scrive un’apprezzata biografia. E anche lei si fa tumulare lì, quando muore nel 1953: un ultimo gesto per ribadire il “nido”.
A conferma di quanto sia difficile capire il vero rapporto di Giovanni con le due sorelle minori, il poeta Mario Luzi (1914-2005) ha scritto che si possono “notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all’infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli”. A sua volta, lo psichiatra Vittorino Andreoli, nel libro “I segreti di casa Pascoli”, ipotizza che Giovanni e la bella Ida avrebbero superato i confini dell’amore fraterno, e per questo la (asessuata) Maria avrebbe trovato il modo per far sposare, e quindi far uscire di casa, la sorella. Non a caso, come accennato, Giovanni percepisce questo matrimonio (desiderato? combinato?) come un tradimento e nonostante i crescenti riconoscimenti letterari e nell’insegnamento (d’Annunzio lo definisce “ultimo figlio di Virgilio”), si ripiega su se stesso. Non solo: inizia a bere, al punto da ammalarsi di cirrosi epatica e di morire per tumore al fegato, a soli cinquantasei anni.
Come non bastasse, anche le sue ultime ore sono segnate da circostanze negative. Secondo la ricostruzione di Gian Luigi Ruggio (nel libro Giovanni Pascoli. Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta, 1998), il giorno prima della morte la sorella Maria mandò a chiamare padre Paolino Dall’Olio, amico del poeta. “E qui avvenne un episodio che incrinò per sempre i rapporti col fratello Raffaele. Lui, forse temendo che l’ammalato, riprendendo coscienza, si impressionasse alla vista del sacerdote, intuendo così che era alla fine, mandò una persona con il contrordine di non far venire il religioso. Maria, nelle sue memorie, confessa, senza mezzi termini, che quel gesto l’aveva amareggiata e disgustata. Afferma che quella fu l’unica ragione per cui il fratello fu privato dei conforti religiosi che, era sicura, avrebbe desiderato. E non perché un picchetto di massoni avrebbe impedito a quel frate di salire a casa Pascoli”. Resta il fatto che “Dal giorno della morte fino a quando la salma non arrivò a Castelvecchio, le campane di San Niccolò [la cappella - ndr] suonarono a morto. Nel frattempo, don Barrè [don Alfredo Benvenuto Barrè, parroco di Castelvecchio - ndr] era corso a Bologna per ottenere l’autorizzazione per i funerali religiosi. Ciò si rese necessario perché era ancora vivo il ricordo di Pascoli politico, del giovane anarchico che, in gioventù, fu intimo amico dell’attivista socialista Andrea Costa. Senza poi dimenticare che aveva avuto fugaci abboccamenti con la Massoneria”.
Ammesso che il ricordo di Pascoli anarchico fosse ancora vivo, di certo lui aveva cambiato atteggiamento politico. Nel 1908 aveva commemorato la morte di Carducci definendolo “Il poeta del secondo Risorgimento” e nel 1911 aveva sia decantato i cinquant’anni dell’unità dell’Italia sabauda, all’Università di Bologna, sia sostenuto la guerra di Libia contro la Turchia ottomana, con il discorso “La grande proletaria si è mossa” a Barga. La stessa cosa si può dire per la religiosità del poeta (con tutto il rispetto, qui usiamo il termine religiosità, e non fede). Lui stesso nella prefazione ai “Canti di Castelvecchio” scrive: «Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico (…) e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali» (non si dimentichi, come è stato scritto, che “il «mondo» di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell’anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati”). Un altro richiamo religioso si legge anche nella lapide all’ingresso del museo di Casa Pascoli, recante la data 1934, dove si ricorda che Maria vi aveva eretto un asilo “per i bimbi di Castelvecchio (…) per desiderio espresso in vita dell’adorato fratello Giovanni che amava con tenerezza paterna i piccoli eredi di Gesù”. Di più, è difficile dire.

Camilla Furno

Un poeta, due Comuni
Non c’è città italiana che non abbia una via, un monumento o una lapide che ricordi il poeta. Qui ci limitiamo al Comune di nascita e di sepoltura. A San Mauro Pàscoli, c’è innanzi tutto la sua casa natale, dichiarata monumento nazionale nel 1924; ha subito molti danni durante la seconda guerra mondiale ed è stata ristrutturata in modo da ripristinare la struttura originaria; è sede del Museo omonimo, che ogni anno realizza mostre e iniziative (sito: http://www.casapascoli.it/). Poi, c’è “La Torre”, la villa già dei Torlonia; su un lato dell’edificio, c’era l’abitazione del fattore (e quindi abitata dalla Pascoli dal 1862 al 1867) e sull’altro la chiesetta, tuttora officiata; dopo un grave degrado nel secondo dopoguerra, l’edificio è stato acquistato e restaurato dal Comune (http://www.comune.sanmauropascoli.fc.it).
Anche a Castelvecchio Pascoli, frazione di Barga (Lucca), c’è la Casa Museo, abitata dal poeta dal 1895 al 1912. La struttura, gli arredi e la disposizione degli spazi sono quelli al momento della sua morte; al piano terreno sono conservati i suoi manoscritti; al primo piano, i suoi libri. Annessa è la cappella dove sono sepolti Giovanni Pascoli e la sorella Maria. Interessante è il sito http://www.fondazionepascoli.it/, con la vita, le fotografie, le poesie, riproduzioni di manoscritti, studi critici e bibliografia.

Aforismi di Giovanni Pascoli
- Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo.
- La vita è bella, tutta bella, cioè sarebbe, se noi non la guastassimo a noi e agli altri.
- Il nuovo non s’inventa: si scopre.
- Il poco è molto a chi non ha che il poco.
- Chi prega è santo, ma chi fa, è più santo.
- Poesia è trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima (…) e ciò si fa da due occhi infantili che guardano con semplicità e serenità di nel tumulto della nostra anima.
- Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra.
- C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico: io vivo altrove e sento / che sono intorno nate le viole.

Camilla Furno

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