Ladro e gentiluomo

Cento anni fa, veniva ritrovata la Gioconda , trafugata due anni prima da un imbianchino che l’aveva infilata sotto la giacca. Tra furti c...


Cento anni fa, veniva ritrovata la Gioconda, trafugata due anni prima da un imbianchino che l’aveva infilata sotto la giacca. Tra furti clamorosi e falsi ritrovati, il mondo dell’arte continua a far parlare di sé.



È il 21 agosto 1911 e a Parigi sono le 9 del mattino. I guardiani, come ogni giorno, stanno aprendo le porte di uno dei più importanti musei del mondo, il Louvre. Ma sulle scale di servizio ecco una cornice strappata e una teca di vetro in frantumi; sono della Monna Lisa. La Gioconda è sparita.
L’imbianchino e la pittura
Inizia così la storia del furto d’arte più celebre, il primo che farà parlare a lungo di sè. In effetti la dama dipinta da Leonardo da Vinci viene ritrovata solo due anni dopo, l’11 dicembre 1913, in una stanza d’albergo a Firenze.
A mettere a segno il colpo, un imbianchino italiano emigrato in Francia, all’anagrafe Vincenzo Peruggia, ormai per tutti una specie di Arsenio Lupin capace di sfuggire facilmente alle forze dell’ordine. In realtà le cose erano filate via lisce: Peruggia, entrato alle 7 di mattino nel museo da una porta secondaria, aveva staccato il quadro, lo aveva infagottato e messo sotto la giacca, appena prima di uscire dallo scalone principale con passo insospettabile. La Gioconda rimarrà a casa sua, in periferia di Parigi, per un paio d’anni. Solo allora verrà messa in vendita: così il ladro sarà rintracciato e sconterà sette mesi di carcere. Durante l’interrogatorio Peruggia dichiara di aver voluto restituire all’Italia un capolavoro sottratto da Napoleone, anche se in realtà la Gioconda venne venduta da Leonardo al re di Francia e non c’entra quindi con il saccheggio del Bonaparte. Intanto però si scatenava un interesse di massa per l’arte e per la prima volta gli italiani ammiravano l’enigmatico sorriso nelle mostre organizzate dopo il ritrovamento.
Furti d’autore
Ormai sono passati cent’anni dal sacco della prestigiosa pittura, ma da allora i furti d’autore sono solamente aumentati. Pensate che nel 2012 in Italia ne sono stati accertati 1026, praticamente tre al giorno. Una perdita che ci costerebbe quasi un punto percentuale del Pil, ma che forse non fa così male alle opere in sé. Già, perché i furti, accendendo i riflettori sui capolavori, ne accrescono la celebrità. Pare che la Gioconda acquistò l’attuale popolarità e divenne un’icona proprio a partire dall’impresa di Peruggia. Negli anni la sua immagine è stata usata anche per caricature – come quella di Marchel Duchamp che le mise irriverentemente i baffi – e pubblicità di forcine per capelli, calze di nylon e persino acque purgative, il cui motto era «sicuramente, velocemente e – appunto - giocondamente». Qualcosa di simile è capitato all’Urlo di Munch, a lungo ricercato dopo ben due furti dalla National Gallery di Oslo. Il primo del 1994 non manca d’ironia, visto che i ladri, che avevano pure fatto suonare l’allarme, trovarono il tempo di scrivere un biglietto alle guardie che li avevano sottovalutati. Anche la Whitworth Gallery di Manchester, per la mancanza di controlli, ha perso per qualche giorno capolavori di Gauguin, Van Gogh e Picasso. Le tele vennero ritrovate dietro una toilette pubblica con un foglietto che invitava a potenziare la sicurezza del museo.
Finora però i migliori ladri “artistici” d’Europa sono i tre che nel 2008 a Zurigo hanno fatto sparire in tre minuti e mezzo quattro tele da 112 milioni di euro, di cui si sono perse le tracce. Esattamente come dell’enorme quantità di beni (circa un milione di pezzi) trafugati in Italia durante la seconda guerra mondiale. Grazie all’azione dei carabinieri qualcosa è stato recuperato, ma per molte opere la storia è chiusa: ad esempio quelle finite nei musei russi sono state recentemente nazionalizzate, chiudendo di fatto la porta all’eventuale restituzione.

Copioni
Ma svaligiare musei di nascosto o a mano armata non è l’unico modo di “fregare” opere d’arte.  Da sempre infatti c’è chi copia il soggetto e lo stile di un artista famoso per ingannare il mercato e fare bei soldoni col nome preso in prestito. In verità però le ragioni di un falsario possono essere anche altre. Ad esempio, ci sono state epoche in cui l’imitazione dell’antico era un vero e proprio esercizio: capita quindi che disegni riusciti particolarmente bene siano oggi scambiati per autentici. Oppure c’è chi copia per passione; virtuosi che riproducono disegni, sculture e (pare sia l’ultima tendenza) nature morte, generando il caos tra i critici. Per scoprirli hanno inventato mille diavolerie, come gli esami chimici o radiografici alle tele. Esiste persino un manuale del collezionista d’arte che insegna a datare un quadro a partire dalla grandezza dei granelli dei pigmenti di colore. Il migliore strumento però resta l’occhio del conoscitore, sempre pronto cogliere qualche discrepanza fatale. Anche se smascherati, i falsari rivendicano con orgoglio un’abilità che ha saputo mettere in crisi fior di professori. Come il parmense Gildo Pedrazzoni che nel secolo scorso, con una stele rigorosamente imitata, ingannò tutti per anni. Guai dunque a chiamarli copioni, ci sono falsi talmente belli che sono addirittura meglio degli originali.

Modì
E non è un caso che il mercato dei falsi si stia espandendo a macchia d’olio. Qualcuno ha pensato anche ad una mostra a Parigi interamente dedicata a loro. L’idea di esporre falsi e farci pure un museo non è nuova per Livorno, città natale di Amedeo Modigliani, ritrattista mai apprezzato in vita dai suoi compatrioti ed emigrato presto in Francia. Per il paese toscano, mettere sotto teca presunte teste scolpite da Modì (questo il soprannome del giovane artista) significa raccontare la burla più grande del secolo.
Infatti nel 1984, in occasione del centenario della nascita, il Comune decide di cercare la statua che – secondo la tradizione tramandata di padre in figlio – Modigliani arrabbiato avrebbe gettato nei canali. Effettivamente tre teste vengono ripescate, peccato che siano tutte clamorosi falsi. Due di queste sono opera di un pittore locale, la terza invece di quattro ragazzotti livornesi che avevano scolpito e buttato nel canale una testa per scherzo, per vedere se qualche anziano lì per lì ci sarebbe cascato. Il paradosso fu che abboccarono pezzi da novanta della critica artistica e quando i giovani falsari, un mese dopo, rivendicarono l’opera,  nessuno voleva crederci. Ci vollero riprese e foto della realizzazione della testa di pietra per convincere la cultura ufficiale che aveva preso un’enorme cantonata.

Vero o falso?
Insomma, vero o falso? Anche oggi la questione è aperta per moltissimi gioiellini. Ad esempio Peter Silverman, estimatore e collezionista, sostiene tenacemente – contro altrettanto autorevoli esperti - l’autenticità leonardesca della sua “bella principessa”, una donna di profilo che potrebbe essere Bianca, la figlia di Ludovico il Moro, duca di Milano a fine XV secolo. In piena crisi d’identità anche “Il Colosso” esposto fino a ieri al Prado di Madrid con la targhetta «Francisco Goya» e da un anno declassato – a fronte di studi ancora da verificare – a un discepolo del maestro. Qualcuno legge in basso a sinistra le iniziali del presunto vero autore, un certo Asensio Julià. Roba impensabile per altri, che non riconoscono affatto la sua scrittura. In attesa del verdetto definitivo, centomila capolavori veri e falsi si mescolano a Ginevra in un bunker sotterraneo ad alta sicurezza. Ma tenerli sotto chiave basterà a proteggerli da tutti gli imbrogli?


I.B.


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