Nel limbo degli unreturnable

di Giovanni Godio Una inquietante richiesta di giustizia Nel limbo degli unreturnable Imprigionati in un corto circuito burocratico se...

di Giovanni Godio

Una inquietante richiesta di giustizia

Nel limbo degli unreturnable

Imprigionati in un corto circuito burocratico senza volto,migliaia di persone vivono ai margini della società,alla disperata ricerca di legalità, accoglienza ed inclusione.



  «Che cosa volevano da me? Non sapevo più che cosa fare. Ho cercato aiuto in altri Paesi, in Lussemburgo, in Austria, in Germania, ma non hanno fatto altro che rispedirmi in Belgio. Mi fa rabbia, a volte piango di rabbia… Non è un gioco! Non auguro questa vita neanche al mio peggior nemico». 
Nome, Boban. Età, 33 anni. Nazionalità, nessuna. Non l’ha mai avuta. È nato in Macedonia in una famiglia rom, è emigrato in Belgio nel 2005 per spezzare un destino di discriminazione, ma è caduto nel nulla: ha chiesto asilo a Bruxelles, domanda respinta. Avrebbe voluto tornare in “patria” ma neanche le autorità macedoni se lo sono ripreso: «Non è nostro cittadino».
Anche se con l’aiuto di un avvocato nel 2009 Boban ha ottenuto   lo status di apolide  , questo verdetto non gli ha dato un permesso di soggiorno: «Così non avevo diritti, un posto dove dormire, il permesso di lavorare». Chiede di essere regolarizzato, non gli rispondono nemmeno. Vive in strada, non è seguito dai servizi sociali. Tenta la fortuna all’estero, lo rimandano in Belgio, dove lo trattengono più volte in centri di detenzione. 
Negli anni chiede asilo altre cinque volte, collezionando altrettanti dinieghi. Un arresto per borseggio, persino un ricovero di due mesi in un centro psichiatrico. 
Nel 2013, otto anni dopo il suo ingresso nell’Ue, Boban era ancora senza documenti. Un apolide che non può essere espulso, una persona senza futuro.


Il problema “che non esiste”

Li chiamano unreturnable, non rimpatriabili. Sono decine di migliaia solo in Germania. Immigrati prigionieri di un cortocircuito burocratico senza volto, non possono essere rimpatriati ma non possono avere un normale permesso di soggiorno in Europa. E senza documenti finiscono spesso nei centri di detenzione per “clandestini”. 
Come e perché si scivola in questo incubo? Magari perché il tuo Paese d’origine non fornisce i documenti necessari al Paese che vorrebbe rimandarti indietro. O perché sei un apolide, un “senza-nazionalità”: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati stima che solo in Europa gli apolidi siano almeno 670 mila, una città di fantasmi grande come Palermo. Oppure perché nel tuo Paese d’origine i diritti umani sono particolarmente a rischio (vedi in Mali o in Somalia), o perché l’espulsione violerebbe il tuo diritto a vivere con la tua famiglia, con un figlio piccolo. Oppure ancora, perché sei malato e in patria non potresti ricevere le cure di cui hai bisogno. 
Come si vede, nel “cortocircuito” si infilano anche ingredienti umanitari, nelle intenzioni. Ma il risultato è sempre lo stesso: anni di esclusione, qui in Europa, dai servizi di welfare, per la casa, per l’educazione e il lavoro a cui hanno diritto gli immigrati “in regola”, e prigionia a singhiozzo nei centri per “clandestini”, senza aver commesso reati.
«Gli unreturnable? Un problema che non esiste», tagliava corto ancora nel 2013 Freddy Roosemont, direttore del Servizio Immigrazione del Belgio. Ma oggi lo smentisce un dossier realizzato, dopo più di un anno di ricerche, da un gruppo di Ong fra cui l’autorevole Consiglio europeo per i rifugiati (Ecre). Certo, il problema riguarda una piccola minoranza di giovani, uomini e donne rispetto ai milioni di immigrati che vivono e lavorano nel territorio dell’Ue. Ma porta nell’“Europa dei diritti” una nuova, inquietante richiesta di giustizia che dovrà essere ascoltata, prima o poi.


Gendarmi a colazione

A Tidiane, 16 anni, maliano, ha giocato un brutto tiro nientemeno che con la Storia, arrivata all'appuntamento con un giorno di ritardo. Nell'ottobre 2012 Tidiane fugge dal Mali in guerra civile (una guerra che, durante un raid, gli è letteralmente entrata in casa) su un volo per la Francia. A Nantes gli dicono che in quanto minore ha diritto ai servizi speciali per la sua età. Entra in una stazione di polizia per chiedere informazioni, gli fanno un accertamento osseo sull’età. «Sei maggiorenne, devi lasciare il Paese», gli intimano i gendarmi. Tidiane non sa come muoversi, né tantomeno che potrebbe presentare appello. Si trasferisce a Poitiers, dove è alloggiato in un centro per giovani e dove lo sottopongono a un nuovo accertamento osseo. 
Questi esami sono imprecisi (in Italia lo ha denunciato di recente l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione), ma tant’è. Questa volta il risultato a Tidiane non lo dicono nemmeno e vengono ad arrestarlo con altri cinque ragazzi direttamente in comunità. «Stavo facendo colazione – ha testimoniato – quando sono arrivati i gendarmi con i cani. Non pensavo che potessero arrestarmi così. Ed è stato umiliante sentirmi dire che il mio certificato di nascita è falso». 
È il 10 gennaio 2013. Il giorno dopo, il presidente Hollande scatena l’intervento militare francese in Mali. E il 15 gennaio, dopo cinque giorni inutili e vuoti in un centro di detenzione, Tidiane viene rilasciato: le autorità della République finalmente si sono “accorte” della situazione nel suo Paese, benché non gli dicano nulla sui motivi del rilascio e sul suo futuro… «Sono ancora spaventato, ho paura che mi rimandino indietro». Anche se forse Tidiane, almeno lui, ce la farà a uscire presto dal limbo: una Ong lo sta aiutando con la domanda d’asilo.<

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