Intervista a Shout - L'immagine del successo

di Carlo Mantovani Intervista con Alessandro Gottardo, in arte Shout L’immagine del successo È conosciuto in tutto il mondo grazie ...

di Carlo Mantovani

Intervista con Alessandro Gottardo, in arte Shout
L’immagine del successo
È conosciuto in tutto il mondo grazie alle sue geniali opere grafiche. Nell’incontro con il giovane illustratore italiano l’occasione per parlare di talento, meritocrazia, arte, giovani e lavoro.

   Ha solo 37 anni, ma è definito l’illustratore italiano più conosciuto nel mondo: l’eleganza felicemente surreale dei suoi disegni ha conquistato le redazioni più importanti e gli ha permesso di mettere la firma su riviste leggendarie come il New Yorker, o su quotidiani autorevoli come il Washington Post.
Shout, al secolo Alessandro Gottardo, ci spiega l’importanza del disegno, un linguaggio universale che nel mondo della comunicazione, e anche in quello del lavoro, funziona meglio delle parole.

L’illustratore è una specie di mimo nel teatro dell’immagine: è difficile esprimersi senza utilizzare le parole?
Sì, se pensi che il mio sogno, da ragazzo, era quello di diventare scrittore! Ad un certo punto, però, mi resi conto che, nonostante il mio amore per la letteratura, avevo una predisposizione naturale per il disegno, e che quindi, per raccontare qualcosa, la lingua delle immagini sarebbe stata più efficacie delle parole. Non che sia stato semplice: creare un mio linguaggio figurativo è stata un’operazione lunga e faticosa, nonostante il mio diploma all’Istituto Europeo del Design. Alla fine, però mi sembra di esserci riuscito.

Il computer, nel tuo lavoro, è uno strumento imprescindibile, o la dimensione manuale, il bozzetto sul foglio di carta, resta fondamentale?

Il foglio, per me, resta l’ubi consistam, il punto di partenza del mio lavoro: le mie opere iniziano tutte da disegni a matita su carta, formato A5. Il digitale mi serve soltanto a completarli, dopo aver scansionato i bozzetti. Come strumento di espressione e comunicazione, quindi, il digitale non aggiunge nulla: disegnerei allo stesso modo con chine, oli, od acrilici. Grazie a 5 anni di liceo artistico, ho basi assolutamente classiche.
Il digitale, invece, è essenziale per motivi professionali: il tempo è denaro e ad un illustratore il computer fa risparmiare un sacco di tempo. Ma passare al digitale non è stato facile: sostituire il pennello con una tavoletta grafica ha richiesto anni estenuanti di esercizio.

Le tue opere nascono da una rilettura, spesso umoristica, della realtà: come ti vengono le idee?
In genere scaturiscono da un’attenta lettura del materiale che il committente mi mette a disposizione: cioè l’articolo, il brief pubblicitario, o il libro di cui devo realizzare la copertina. La chiave è non farsi distrarre dai dettagli e individuare il cuore del progetto. E nel tradurlo in immagini inserisco sempre un elemento umoristico: l’esperienza mi ha insegnato che, se il cliente sorride, il lavoro viene quasi sempre approvato senza bisogno di modifiche. Io la chiamo “strizzata d’occhio”.

Visto che siamo nell’era dei talent show: per diventare illustratore di successo servono più l’esercizio o il talento?
Sicuramente l’esercizio. Ma ancora di più, come requisito professionale, servono passione e determinazione: ricordo tanti compagni di classe, prima al liceo artistico e poi allo IED, che pur avendo grande talento, hanno fatto scelte professionali molto diverse.
La passione ti spinge a ricercare, a confrontarti studiando il lavoro degli altri illustratori, sviluppando capacità di autocritica e apertura mentale. Qualità non sempre presenti nei giovani, ma preziosissime nell’approcciarsi al mercato: se non ti rendi conto che la tua illustrazione è brutta, non potrai mai farne una bella.

Cosa ami e cosa detesti del tuo mestiere?
Amo la possibilità di autogestirmi e la libertà di poter fare questo lavoro dovunque, a Milano o a Shangai. Amo il piacere di creare qualcosa di originale, che prima non esisteva. E, perché no, anche le buone possibilità di guadagno. Non c’è nulla, in questo lavoro, che me lo faccia odiare: l’unico difetto, diciamo, è la solitudine, che però è un ingrediente necessario del processo creativo.


Nel tuo settore, ormai, sei una star globale. Immaginavi un tale successo, quando hai iniziato?
Ovviamente no. Non so dire se sono una star, ma sicuramente nel mio ambito ho una lista clienti nutrita e che continua a crescere. E il fatto che sia di tipo internazionale mi rende particolarmente orgoglioso. Quando ho iniziato mi bastava raggiungere l’indipendenza economica facendo un lavoro che mi piaceva. La svolta è arrivata nel 2005: anno in cui, tra l’altro, cominciai a firmarmi con lo pseudonimo di Shout (era il titolo di una mia opera). Mi resi conto che il mercato chiedeva esattamente quello che amavo e mi riusciva meglio: l’illustrazione concettuale, dove il messaggio è più importante dello stile.

L’illustratore può definirsi un artista?
Secondo me, no. Sono un creativo, non un artista. Non esprimo me stesso, mi limito ad illustrate cose fatte da altri. Sono un traduttore, trasformo le parole in immagini. Che si tratti di un saggio sul conflitto tra Israele e Palestina, o di un pezzo sull’obesità infantile nel Midwest. Siamo sarti, cuciamo immagini su misura. Ma guadagno piuttosto bene: forse proprio perché non faccio arte, ma un servizio ben remunerato.

Tu sei la dimostrazione che con internet ci si può far conoscere in tutto il mondo stando a casa. Come giudichi il fenomeno dei cervelli in fuga?
Il mio lavoro, in effetti, ha un grande vantaggio: si può fare dovunque (bastano un portatile e una connessione ad internet), ma non ti costringe ad emigrare. Il fatto che io non me ne sia dovuto andare, tuttavia, non mi impedisce di comprendere perfettamente le ragioni di chi fugge: e io stesso, se avessi la sensazione che il posto dove vivo, Milano, non mi offre più quello di cui ho bisogno, partirei subito.
 
Ti sembra che il disegno e le discipline creative siano abbastanza valorizzate nella scuola dell’obbligo italiana?
Si potrebbe fare molto di più. Anche perché l’illustrazione ha caratteristiche molto adatte alle esigenze del mondo attuale, che comunica per immagini.  Davvero non so pensare ad un mestiere che rappresenti il nostro tempo più di quello dell’illustratore: un lavoro che riassume in sé tutti i principali valori richiesti dal mercato: globalizzazione, internazionalità, libera professione, creatività, velocità, supporto digitale, comunicazione, internet.
Insomma, un lavoro molto difficile, ma che al tempo stesso offre grandissime opportunità. È la riscossa dei licei artistici contro i più blasonati scientifici e classici: perché oggi, chi sa fare un’illustrazione, ha molte più possibilità di raggiungere l’indipendenza economica di un laureato in giurisprudenza. Il problema è che nessuno lo dice e i ragazzi non lo sanno.

Che cosa consigli a chi volesse intraprendere un cammino simile al tuo?

Di mettere un mattoncino alla volta, sforzandosi di non guardare la cima della piramide. Di non prendersi troppo sul serio, accettando che si tratta di un mestiere, non di una forma d’arte. Ma, al tempo stesso, di essere determinati: dare il massimo per raggiungere i propri obiettivi. <

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