In prima linea

persone di Giovanni Godio   Incontro con Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi In prima linea Essere cristiani in Pakistan a ci...

persone
di Giovanni Godio
 
Incontro con Joseph Coutts,
arcivescovo di Karachi
In prima linea
Essere cristiani in Pakistan a cinque anni dall’assassinio del ministro cattolico per le minoranze Shahbaz Bhatti.
La discriminazione, le violenze, gli attentati. Ma, nonostante tutto, anche qualche segno di speranza.

È misurato nelle parole, prudente. Ha il tratto semplice e sobrio degli uomini delle Chiese di frontiera. Ma lo si vede, gli piace dialogare. Si mette alla prova con l’italiano alternandolo, con nonchalance, all’inglese. E rivela nello sguardo, nei gesti, nel sorriso, un’energia che non daresti ai suoi 70 anni.
DN ha intervistato a Torino mons. Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi, una delle metropoli più popolose del mondo (20 milioni di abitanti ma solo 200 mila cattolici in tutta la diocesi) e presidente della Conferenza episcopale pakistana. Sotto la Mole, Coutts ha incontrato il Comitato regionale per i diritti umani del Piemonte nel corso di un viaggio in Italia organizzato dalla fondazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) a cinque anni dalla morte di Shahbaz Bhatti, l’indimenticato ministro del Pakistan per le Minoranze assassinato dai fondamentalisti nel 2011.

Mons. Coutts, lei in Italia ha portato la dignità della sua gente: «Siamo una piccola minoranza, ma non siamo una Chiesa nascosta o silenziosa. I musulmani di buona volontà ci sostengono, possiamo tuttora uscire nelle strade per protestare contro le ingiustizie e la violenza...». Ma come lei stesso denuncia, non sono tempi facili per i cristiani pakistani. In particolare quali sono i problemi che incontrano i vostri giovani?
Per loro il problema è l’istruzione, in un Paese dove l’analfabetismo riguarda ancora il 50% circa della popolazione. Ma specialmente, oggi, l’istruzione a livello superiore, nella quale come Chiesa cattolica abbiamo pochi istituti.
È a questo livello che in Pakistan ci si imbatte nella discriminazione: il percorso formativo si fa più stretto, perché la selezione rende difficile entrare all’università. È di alcuni anni fa, tra l’altro, la norma che se un musulmano impara tutto il Corano ha 20 punti in più, cosa che chiaramente lo avvantaggia rispetto a un cristiano preparato come lui.

Shahbaz Bhatti, cattolico, l’unico ministro per le Minoranze della storia pakistana, moriva assassinato nel 2011. Come lo ricorda?
Il suo è stato l’esempio di un buon leader cristiano. Era onesto, a differenza di numerosi politici. Era sincero, autentico. Si sentiva al servizio del suo popolo, la sua simpatia andava in particolare verso i più poveri. Lo rispettavano anche i non cristiani, perché era lui il primo ad avere un gran rispetto verso di loro. È così che lo ricordiamo, e cerchiamo di proseguire il buon lavoro che ha iniziato.

La Santa Sede ha autorizzato l’apertura di una (non facile) indagine sulla sua
santità nella diocesi del suo martirio.
Per noi Shahbaz Bhatti è il segno di quello che affermava uno dei padri della Chiesa, Tertulliano: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani». Avere un martire nella nostra Chiesa renderà più forte la nostra fede.

Lei oggi è presidente di Caritas Pakistan, che dopo terremoti e alluvioni aiuta tutti, cristiani e musulmani. Ma già quando era vescovo di Hyderabad lei ha appoggiato la lotta dei “senzaterra”.
Sì, è passato molto tempo (sorride): sono diventato vescovo nel secolo scorso, qui parliamo di 20-25 anni fa: ero più giovane e riuscivo a fare di più!

A fare che cosa?
Specialmente in questa provincia del Sindh, nel Sud, ci sono grandi proprietari terrieri che possiedono migliaia e migliaia di ettari. I poveri che lavorano queste terre ne diventano quasi schiavi, per via di prestiti che non riescono a restituire al “padrone”. In inglese lo chiamiamo bonded labour, lavoratori che rimangono “legati”, vincolati al loro padrone.
Anche la Human Rights Commission of Pakistan (HRCP) si era impegnata per liberare queste persone, e io collaborai con lei.

Come andò a finire?
Riuscimmo a liberarne molte. I cristiani erano pochi, molti erano indù, ma non guardavamo alla religione. Fu così che i proprietari terrieri mi attaccarono. Convocarono una conferenza stampa per dire che «questo vescovo riceve un mucchio di denaro dall’America per convertire i poveri indù al cristianesimo».
Dovetti difendermi presso l’ombudsman del Governo. E toccò anche a me partecipare a una conferenza stampa con l’appoggio della HRCP, per ribadire che erano tutte calunnie, che non convertivamo persone: quelle persone erano degli schiavi.

La situazione oggi è migliore?
No, la questione non è semplice. Le leggi le abbiamo, ma questo non significa che tutto funziona secondo le leggi. È una lotta continua.

Che cosa possiamo fare in Italia per i cristiani pakistani?

Non abbiamo solo bisogno di aiuti in denaro, ma anche che la Chiesa che è in Europa comprenda la situazione, aiutandoci con la sua preghiera. Questo è un grande incoraggiamento per noi: tornato a casa, dirò ai nostri cristiani come ci sono vicini i fratelli italiani. Perché anche laggiù si sappia che non siamo soli, che ci sono altri che pregano per noi e sono pronti a dare una mano. È importante, ci aiuta a conservare la speranza. <

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