i Negrita Una cucina, un deserto e tanto rock
MUSICA di Francesca Binfarè Intervista con i Negrita Una cucina, un deserto e tanto rock Sono gli “ingredienti” dosati dalla ban...
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di
Francesca Binfarè
Intervista
con i Negrita
Una
cucina, un deserto e tanto rock
Sono gli “ingredienti”
dosati dalla band per mettere a punto l’ultimo intenso cd. Che ha rischiato di
non uscire.
Il
loro graffio è inconfondibile: i Negrita sono tornati con un nuovo album, e
pensare che hanno rischiato di sciogliersi. Chissà se è vero che l’arte produce
i suoi frutti migliori in seguito a momenti difficili o tristi… fatto sta che
sull’orlo dello scioglimento, i Negrita si sono ritrovati e hanno realizzato
una manciata di canzoni davvero coinvolgenti, quelle che fanno parte del nuovo Desert
Yacht Club.
La
California è un amore che va e torna, per la band; quello per il viaggio,
anche. La California ha alimentato il loro immaginario e diversi loro dischi
sono nati dal vagabondare: in questo, i Negrita si sono confermati nella loro
essenza, ma l’album ha aspetti diversi rispetto a quelli del passato. C’è
profumo di spazi sterminati, cactus
e sabbia in questo cd che guarda indietro ma contemporaneamente anche al
futuro.
I
Negrita ci hanno presentato le loro canzoni raccolti attorno a un lungo tavolo
di legno, come quello dove il nuovo disco è nato, accogliendoci con un’atmosfera conviviale. Ecco cosa ci
hanno raccontato.
Spesso i vostri dischi
nascono nel corso di viaggi e vagabondaggi: la scoperta di nuovi luoghi è linfa
per le vostre canzoni?
Il
deserto americano dove siamo stati ci ha ispirato moltissimo, soprattutto per
il modo in cui lo abbiamo vissuto. Siamo stati in un resort (un’oasi
creativa fondata da Alessandro Giuliano nel deserto di Joshua Tree in
California, nda), che in realtà era
composto da roulotte e tende. Avevamo uno studio di registrazione molto
ristretto, tutti strumenti che potevamo portare ovunque con noi: due casse, un
computer e le chitarre. Le canzoni sono nate attorno al tavolo della cucina,
letteralmente.
Questo spiega la
definizione di kitchen groove che
avete dato alle sonorità delle nuove canzoni?
Esatto,
abbiamo applicato il metodo di lavoro del “tavolo da cucina”. Ci siamo seduti
lì attorno e abbiamo registrato le idee come e quando ci venivano, anche di
notte. In passato abbiamo lavorato anche in studi di registrazione classici, ma
preferiamo soluzioni residenziali, quelle in cui viviamo e registriamo se
necessario lungo l’arco delle 24 ore. Casa e studio, insomma.
Avere
avuto un chitarrista cuoco ci ha dato ulteriori vantaggi (dicono ridendo, nda). Inizialmente ci siamo scambiati
playlist di cose nuove che ci era capitato di ascoltare, e che hanno costituito
la nostra base di partenza comune. Dentro c’erano anche canzoni lontane dal
rock, che è il genere che ci è più affine… ma d’altro canto saranno vent’anni
che il rock non produce canzoni che diventano fenomeno di massa.
Questo metodo di lavoro come
ha influenzato le canzoni?
Sono
venute delle istantanee, dato che potevamo produrre brani ovunque fossimo e non
appena ne avessimo sentita l’esigenza. Abbiamo escluso studi e sale prove, e le
canzoni sono nate dalle nostre esplorazioni più libere. Libere perché là, nel
deserto, nessuno ci vedeva, nessuno ci sentiva. La natura era estrema, ti
faceva sentire isolato. Questo ha fatto sì che ci concentrassimo sui brani che
volevamo fare.
Scrivere in completa
solitudine…
In
realtà, anche se eravamo molto concentrati, nel deserto ci vivono delle persone,
specialmente americani che si godono la pensione. Di notte venivano a trovarci
e noi andavamo da loro. Addirittura la prima sera, una volta arrivati al resort
siamo andati in visita all’accampamento più prossimo: ci hanno offerto del gelato,
preparato sul momento, lì in mezzo al nulla. Un deserto vivissimo, insomma.
Avete però esplorato anche
le città di quella zona degli Stati Uniti.
A
bordo di un furgone abbiamo girovagato un po’ negli Stati del sud ovest: dopo
il deserto, un ambiente che ti fa sentire piccolo e ti spinge a guardarti
dentro, siamo andati verso San Diego e Los Angeles, le metropoli californiane.
Per noi l’America sono i paesaggi e le vibrazioni che ci comunica.
Quindi possiamo definirlo
un disco “californiano”?
No,
che Desert Yacht Club sia nato lì è
un caso. Noi cercavamo un periodo di rigenerazione, avevamo alle spalle qualche
anno di problemi interiori che ci avevano fatto pensare che come gruppo potevamo
anche aver chiuso. Vedevamo un orizzonte finito, come band, qualcuno pensava di
mollare. Però abbiamo avuto una reazione, partita dai valori: li abbiamo
rimessi in gioco.
Nelle
nuove canzoni c’è positività (che è una nostra caratteristica da sempre) e,
siccome la nostra musica parla della vita, dentro ci sono anche disillusione e
rabbia, non solo amore. Avevamo una regola: non rifare noi stessi. Non
ripeterci rispetto ai dischi precedenti è una responsabilità che sentiamo.
Come la affrontate?
Capita
che i fan ci invitino a “non cambiare mai”, ma questa richiesta è qualcosa che
non vogliamo accettare. Noi cambiamo secondo quello che ci dettano le nostre
esistenze. E infatti in questo disco abbiamo interpretato il nostro tempo a
modo nostro, dentro c’è l’anima dei Negrita ma abbiamo attinto a generi
musicali che non fanno propriamente parte del nostro percorso passato.
Suoniamo
da tanti anni, ma di sentirci vecchi non ci passa neanche per l'anticamera del
cervello. Potevamo vivere di ricordi ma, a 50 anni, abbiamo scelto invece di
guardare avanti domandandoci chi siamo oggi e chi saremo in futuro. Ecco cosa
abbiamo fatto, abbiamo ragionato su noi stessi e sono venuti fuori pensieri
profondi.
Cosa vi augurate per il
vostro Desert Yacth Club?
Per
noi è importante che la musica entri nel cuore della gente, sia la colonna sonora
di momenti importanti. Ce lo auguriamo.
Quale immagine vi portate
dietro da questa esperienza?
La
barca nel deserto – una contraddizione - che vedete sulla copertina del cd, che
in effetti c’era nel resort dove eravamo ospiti.
BOX
I
Negrita, gruppo dall’anima rock, si
sono formati all’inizio degli anni ’90 in provincia di Arezzo. Nati come
quintetto, oggi sono rimasti in tre: Paolo “Pau” Bruni (voce), Enrico “Drigo”
Salvi (chitarra solista) e Cesare “Mac” Petricich (chitarra ritmica).
Il
loro nome è ispirato a Hey! Negrita, brano dei Rolling
Stones.
Tra
le collaborazioni, da segnalare quella con Aldo,
Giovanni e Giacomo: il brano Ho
imparato a sognare fa parte della colonna sonora del loro film Tre uomini e una gamba. Sempre per il
trio comico, hanno scritto il commento sonoro del film Così è la vita.
Desert Yacth Club è il loro decimo album da studio.