Pericolo digitale

di Dino Valle          Pericolo digitale              Il neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer lancia l’allarme:  «La nuova tecno...


di Dino Valle


         Pericolo digitale             

Il neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer lancia l’allarme: «La nuova tecnologia ci rende stupidi».




     Media digitali,            

        un danno per il fisico e la mente           

        «Senza computer, smartphone e Internet oggi ci sentiamo perduti. Questo vuol dire che l’uso massiccio delle tecnologie di consumo sta mandando il nostro cervello all’ammasso». È l’analisi spietata di Manfred Spitzer, autore del saggio Demenza digitale.
         Il neuropsichiatra tedesco ha sperimentato personalmente, qualche anno fa, gli effetti del fenomeno di dipendenza dalla tecnologia informatica: «Ero a San Francisco per lavoro, e mi spostavo per la città in auto, usando un navigatore satellitare – racconta – . Un giorno mi fu rubato ma, visto che avevo fatto quei percorsi diverse volte, ero sicuro di potermi orientare da solo. Invece mi persi e solo allora mi resi conto che, affidandomi al Gps, avevo compromesso la capacità del cervello di prendere nota dei punti di riferimento, come avrebbe fatto se avessi usato una cartina».
         I dati da cui parte Spitzer sono allarmanti. Negli Stati Uniti i ragazzi fra gli 8 e i 18 anni passano ormai in media 7,5 ore davanti a uno schermo, più che a scuola o a dormire. In Italia, secondo l’11° rapporto Censis sulla comunicazione, il 12,5% dei giovani tra i 14 e i 29 anni usa i media digitali per più di 6 ore al giorno e un altro 15% è fra le 3 e le 6 ore.
«Usare continuamente computer o smartphone ostacola lo sviluppo o il mantenimento di capacità come la memoria, l’autocontrollo, la concentrazione, la socialità, che possono rafforzarsi solo interagendo con il mondo reale» denuncia Spitzer.
      Non va meglio in Corea del Sud, Paese dall’elevatissima penetrazione di media digitali, dove il 67% dei giovani possiede uno smartphone, e il 18% di loro lo usa per oltre 7 ore al giorno. Lì il termine “demenza digitale” viene usato già dal 2007 per i casi estremi di dipendenza da Internet, un disturbo che, a vari gradi di gravità, riguarda il 12% degli studenti.
      Altri effetti dell’overdose digitale stanno emergendo da ricerche condotte in Europa e Usa. Per esempio, la “nomofobia”, la paura di dimenticarsi il cellulare e restare isolati, è diventata comune come il raffreddore: in un sondaggio americano su 1.000 intervistati ne è risultato affetto il 66%, il 77% tra i 18 e i 24 anni.

                                 Effetti gravi                                  

     «Insonnia, depressione e dipendenza sono effetti estremamente pericolosi del consumo di media digitali, che non vanno assolutamente sottovalutati nell’ambito dello sviluppo psicofisico delle giovani generazioni» raccomanda Spitzer. Le conseguenze di un uso eccessivo e incontrollato di Internet si ripercuotono sia sulla salute che sulla vita familiare.
      L’insonnia è l’effetto collaterale indesiderato più frequente. La continua mancanza di sonno può nuocere al sistema immunitario aumentando la vulnerabilità a diverse malattie. L’abitudine a dormire poco non provoca soltanto stanchezza permanente, ma anche obesità e dunque malattie cardiovascolari, diabete. La mancanza di esercizio fisico e la postura (seduti davanti al computer) possono inoltre causare mal di schiena, sindrome del tunnel carpale e affaticamento agli occhi.
      Trascorrere gran parte della giornata in compagnia dei media digitali, poi, non giova all’umore. «Vi è mai capitato di notare che una persona davanti a uno schermo difficilmente sembra felice?» osserva Spitzer. Il loro “consumo” nei giovani provoca apatia, nei confronti della scuola ma anche delle attività di gruppo nel tempo libero, dell’attività fisica.
      Di qui la riduzione dei contatti sociali e l’insorgenza di stress, che conduce non solo alla depressione e all'isolamento, bensì a numerosi disturbi fisici, a carico del sistema cardiocircolatorio, dell’apparato motorio (mancanza di movimento, posture errate), fino alla demenza. A ciò si aggiunga il deterioramento dei rapporti familiari, dovuto alla diminuzione del tempo trascorso insieme e al nascere di conflitti per quello speso in Internet.
Secondo uno studio sulla dipendenza da Internet, condotto dalle università tedesche di Lubecca e di Greifswald in collaborazione con quelle olandesi di Nijmegen e Rotterdam, il fenomeno interessa l’1,5% dei 15.024 tedeschi intervistati tra i 14 e i 64 anni (1,3% le donne, 1,7% gli uomini). Si tratta di persone che ogni settimana trascorrono in rete una media di 29,2 ore. Tra i 14 e i 24 anni la quota sale al 2,4% e tra i 14 e i 16 anni al 4%. In questa fascia le ragazze superano i ragazzi (4,9% a 3,1%): le prime privilegiano l’utilizzo di social network (77,1%), mentre i secondi usano la rete soprattutto per giocare.
      Tra le attività e i comportamenti più frequenti: acquisto in rete, utilizzo eccessivo di video, uso intensivo di social network, chat room e giochi online, così come l’utilizzo notturno di Internet.
      Gli studenti abituati a navigare riducono le loro attività nel mondo reale e quindi risultano socialmente più isolati, confermando l’evidente rapporto che esiste tra la solitudine e l’utilizzo di Internet. Il circolo vizioso che emerge dal trattamento delle fobie sociali, del timore di rapporti reali e dell’ulteriore isolamento viene dunque consolidato dalle possibilità della rete.


             Facebook?           

           Meglio metterci la faccia               

      I social network online, come Facebook, Twitter o Google +, contano diverse centinaia di milioni di iscritti e sono ormai un elemento imprescindibile del mondo giovanile. Soddisfano il bisogno fondamentale di avere contatti con il prossimo e favoriscono i legami sociali.
      Chi tuttavia crede che questa nuova opportunità di contatto abbia solo risvolti positivi si sbaglia. Secondo Spitzer, rappresentano un potente veicolo per l’anonimato: «Non esiste luogo dove vi siano più avatar, alias, indirizzi di comodo e false identità che nei social network». E se nessuno sa chi siamo, possiamo permetterci comportamenti criticabili senza subire conseguenze. Questo non solo dà la possibilità ai criminali di commettere i loro reati in rete, ma anche le persone comuni si fanno meno scrupoli morali.
      «L’anonimato della rete provoca una riduzione dell’autocontrollo e una corrispondente diminuzione dello sforzo per mantenere un comportamento sociale adeguato» afferma il neuropsichiatra tedesco. Chi ha già sviluppato i propri rapporti attraverso i canali tradizionali, cioè incontrando gli altri di persona, non subirà danni dai social network e li utilizzerà come il telefono o le e-mail, e con una certa disinvoltura. Chi invece non ne ha ancora avuta l’occasione e fin da bambino o da ragazzo instaura gran parte dei propri contatti in rete, cioè costruisce la propria sfera di amicizie nel mondo virtuale, corre il rischio di non acquisire una competenza sociale adeguata.
      Secondo Spitzer l’era dei social network ha portato cambiamenti radicali anche in un rapporto fondamentale come l’amicizia: «La parola ha assunto un nuovo significato: un amico è chiunque il cui nome sia apparso sul mio schermo e su cui io abbia cliccato – sostiene – . Presto ci ritroveremo con una società di analfabeti sociali, zombie incapaci di provare empatia per nessuno, nemmeno per se stessi. Dove si impara nei social network l’autoregolamentazione, il controllo delle situazioni, la gestione del contatto umano?».


        Le amicizie virtuali aumentano la solitudine         

      I social network sarebbero una fonte di buone amicizie e di felicità? Per Spitzer si tratta solo di un’invenzione pubblicitaria, in realtà rendono i giovani più soli e infelici.
      Da un sondaggio online, che ha raggiunto più di un milione di ragazze americane, emerge che quanto più hanno usato Facebook e simili, tanto più si sono sentite isolate e depresse. Il loro uso quotidiano medio di Internet ammonta a 6,9 ore e solo il 10% delle intervistate ha ammesso che le amicizie online sono fonte di emozioni positive.
Persino le più ostinate utilizzatrici di media digitali hanno riconosciuto che le emozioni positive derivano soprattutto dalle amicizie personali nel mondo reale. Viceversa, metà delle ragazze hanno collegato le emozioni negative ai contatti online.
      «Internet è costellata di fallimenti sociali: fingere di essere un altro, truffare, fino ai comportamenti criminali veri e propri – afferma Spitzer – . In rete si può mentire, perseguitare, spillare soldi, essere aggressivi, diffamare e calunniare senza limiti. Non deve quindi sorprendere se i social network provocano nei giovani utenti solitudine e depressione».


      Cybermobbing: da offese  e minacce ai suicidi          

      «L’anonimato offerto dai nuovi media digitali induce i giovani ad assumere comportamenti che prima rifiutavano per timore di un controllo sociale» asserisce Spitzer. Uno di questi è il mobbing in Internet, cybermobbing per dirla all’anglosassone. È un insieme di comportamenti violenti che equivale al mobbing (distruzione mirata di una persona a livello psichico ma anche fisico), con l’unica differenza che si svolge nel mondo virtuale di Internet o tramite strumenti di comunicazione elettronici.
       Con questi nuovi mezzi i cosiddetti “mobber” hanno gioco facile: i social network e i portali video permettono di colpire le vittime anche privatamente, al di fuori della scuola e, una volta pubblicati, è quasi impossibile eliminare i contenuti dalla rete. 
      In Italia, secondo l’Indagine nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza pubblicata nel 2011, il 20% dei ragazzi ha trovato in Internet informazioni false sul proprio conto: “raramente” (12,9%), “qualche volta” (5,6%) o “spesso” (1,5%). Con minore frequenza si registrano casi di messaggi, foto o video dai contenuti offensivi e minacciosi, ricevuti “raramente”, “qualche volta” o “spesso” dal 4,3% del campione; analoga percentuale (4,7%) si registra anche per le situazioni di esclusione intenzionale da gruppi on-line. Addirittura alcuni suicidi di minori sarebbero collegati all’utilizzo di Ask.fm, social network accusato di favorire l’anonimato e ritenuto “pericoloso” dagli utenti stessi.


       Più matite e       

       meno tastiere per imparare           

      I software per l’elaborazione dei testi al computer hanno rappresentato un’innovazione che ha notevolmente rivoluzionato, e snellito, il modo di scrivere. Oggi il “copia e incolla” è una funzione così diffusa che neppure ci ricordiamo come si faceva in passato a scrivere un documento a mano o con la macchina da scrivere. 
      «I computer elaborano informazioni come gli esseri umani che imparano. Da qui si deduce erroneamente che i computer siano strumenti ideali di apprendimento – spiega Spitzer – . Invece, proprio per il fatto di sottrarci il lavoro mentale, i computer non sono adatti per imparare meglio».     L’apprendimento presuppone un lavoro mentale autonomo: più a lungo e in modo più approfondito si elabora un contenuto, meglio lo si impara.
       Per esempio bisognerebbe copiare una parola manualmente, perché in questo caso sarebbe necessario memorizzarla e riprodurla. Il computer, proprio perché evita agli studenti buona parte del lavoro mentale, come ad esempio la copiatura, esercita un effetto negativo sull’apprendimento. Così, l’introduzione a scuola di computer, tablet o lavagne elettroniche non porta a un miglioramento nelle competenze degli studenti.
       L’idea poi di utilizzare i media digitali anche per l’educazione e l’intrattenimento di bambini in età prescolare potrebbe sfociare addirittura in un disastro: a quell’età lo sviluppo cerebrale passa attraverso la manualità, i giochi collettivi, l’attività fisica, il canto e il disegno. «Chi desidera che i propri figli diventino matematici o informatici, dovrebbe offrire loro giochi con le dita anziché computer portatili negli asili – avverte Spitzer – . E chi prende sul serio la lingua scritta, dovrebbe chiedere matite anziché tastiere».


                Uso intensivo del pc         

                      e risultati scolastici                 

      Per Spitzer l’uso intensivo del pc ha un effetto negativo sulle prestazioni scolastiche: «Lo dicono i dati dell’Ocse: i quindicenni che hanno un computer in camera sono studenti meno brillanti rispetto a chi non ce l’ha».
      L’utilizzo di motori di ricerca è il modo più rapido per ottenere le informazioni che servono: «Ma per poter sfruttare al meglio Google è necessaria la conoscenza. Più si conosce, meglio si può valutare ciò che i motori di ricerca offrono – sostiene il neuropsichiatra tedesco – . Ad esempio, in un articolo pubblicato sulla rivista Science circa due anni fa, gli scienziati di Harvard e della Columbia University hanno dimostrato che le probabilità di ricordare nuove informazioni sono inferiori, se sono state apprese dalla rete rispetto ai libri, alle riviste e ai giornali».
      Ormai è stato dimostrato con assoluta certezza che i bambini imparano con qualsiasi gioco. Alcuni studiosi considerano i videogiochi non un problema per l’apprendimento, bensì la sua soluzione. A parere dell’americana Constance Steinkuehler è possibile risolvere il problema delle difficoltà di lettura di molti giovani facendoli giocare a World of Warcraft, il gioco di ruolo online più diffuso al mondo.
      Secondo Spitzer, invece, il modo in cui i bambini e i ragazzi occupano le giornate non è indifferente, perché «ogni azione lascia una traccia nel cervello». Nei giochi per computer si tratta prevalentemente di propensione alla violenza, desensibilizzazione verso la violenza reale, isolamento sociale e un livello inferiore d’istruzione. «Se volete davvero che vostro figlio porti a casa brutti voti e da adulto si occupi meno di voi e dei suoi amici, allora regalategli una console – dichiara polemicamente –. Darete il vostro contributo all’aumento della violenza nel mondo reale».


           Generazione Google: geniale o limitata?           

      I nati dopo la metà degli anni Novanta non sono in grado di concepire il mondo senza computer e senza Internet, senza cellulari e iPod, console e televisioni digitali. Sono cresciuti in un ambiente diverso, ma per Spitzer non si tratta di una generazione di “bambini prodigio digitali”: «In qualità di neurobiologo, devo sottolineare come i media digitali possano provocare nei giovani un peggioramento nella loro formazione, che il loro utilizzo non favorisce lo sviluppo di impulsi sensomotori e che l’ambiente sociale, come viene ripetuto spesso, subisce modificazioni e limitazioni notevoli».
      L’immagine del “nativo digitale” che ha bevuto e assorbito Internet e i computer con il latte materno si rivela a ben vedere un mito: «La profondità del lavoro mentale necessaria per l’apprendimento è stata sostituita dalla superficialità digitale» sostiene Spitzer.
      In sostanza, chi rinuncia a pensare non diventa un esperto: «Chi nutre ancora dei dubbi, provi a riflettere su una cosa: i numeri di telefono di parenti, amici e conoscenti sono salvati nel cellulare. Il navigatore satellitare ci indica il tragitto per raggiungere un certo luogo. Gli appuntamenti della vita professionale e privata sono inseriti su un’agenda digitale. Chi cerca informazioni va su Google; foto, lettere, e-mail, libri e musica sono nel cloud – elenca Spitzer – . Pensare, memorizzare, riflettere non costituiscono più la norma».
      Qui non si tratta di imparare a memoria: «Demenza non significa solo mancanza di memoria. Il problema riguarda soprattutto il rendimento mentale, il pen-siero, la capacità critica e di orientarsi nella giungla delle informazioni».


            Verso la saggezza digitale          

       Per Spitzer non c’è bisogno di tornare al passato: «I computer ci servono, ma dobbiamo valutare rischi ed effetti collaterali con attenzione. Come per le auto, l’energia nucleare o i raggi X, ogni nuova tecnologia porta rischi che spesso vengono ignorati».
       Basta avvicinarsi alla tecnologia con equilibrio e senso critico: «Con la consapevolezza che ogni attività presenta rischi ed effetti collaterali. Se ci limitiamo a chattare, twittare, postare e navigare su Google finiamo per parcheggiare il nostro cervello, ormai incapace di riflettere e concentrarsi».
La ricetta del neuropsichiatra tedesco per evitare di arrivare alla demenza digitale è seguire la stessa strada utilizzata per affrontare problemi analoghi. «L’alcol crea dipendenza, danneggia il corpo e la mente, provoca declino sociale, isolamento, depressione e morte precoce. Vediamo il pericolo e tassiamo l’alcol per aumentarne il prezzo e scoraggiare i giovani e i gruppi emarginati.
       Lo stesso principio è stato applicato alle sigarette: aumentarne il prezzo ha ridotto il numero di morti per tumore al polmone causato dal fumo. Numerosi studi dimostrano che anche nel caso dei nuovi media una limitazione della dose è l’unica misura in grado di ridurne drasticamente i possibili danni». Spiegazioni e buoni consigli non funzionano: «Possiamo anche scrivere sui pacchetti di sigarette che il fumo è letale, ma nessun fumatore ci baderà».
       C’è chi propone di istituire un patentino per navigare in Internet, chi invoca una maggiore competenza mediatica negli asili e nella scuola elementare e chi ancora suggerisce il jogging mentale. Per Spitzer non servono, è sufficiente non farsi imbrogliare dai ciarlatani dei media: «Mantenete sempre un atteggiamento critico, fate ricerche, pretendete dati e informatevi dalle ricerche serie pubblicate sulle riviste scientifiche».


                 E se Spitzer si sbagliasse?              

     Marc Prensky, autore americano interprete dei cambiamenti che la rivoluzione digitale ha portato al nostro modo di vivere, non la pensa come Spitzer. Nel suo saggio La mente aumentata - Dai nativi digitali alla saggezza digitale, controverso e discusso, dimostra che un uso intelligente della tecnologia potenzia la mente e le sue abilità, piuttosto che inibirle.
Attraverso decine di esempi, illustra il modo in cui una combinazione ragionata delle capacità del pensiero, come l’assunzione di decisioni o il ragionamento complesso, con le possibilità concesse dalla tecnologia, come l’archiviazione ed elaborazione di grandi quantità di dati, porti indubbi benefici al nostro funzionamento cognitivo.
      Come fare in modo, allora, che mente e tecnologia estendano a vicenda i rispettivi potenziali? La risposta di Prensky è: «Ricercando la saggezza digitale, un’interconnessione tra umano e tecnologico che consenta all’homo sapiens di cogliere le maggiori sfide del XX secolo, affrontando con efficacia le prossime fasi dell’evoluzione cognitiva».
Altri sono più prudenti. Nicholas Carr, scrittore statunitense autore di Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, dice: «Il problema non sta in un determinato servizio o in un determinato sito... È il fatto di essere risucchiati in questo mondo pieno di stimolazioni, con informazioni che bombardano da tutte le parti, mentre invece manca il tempo necessario per fermarsi a pensare, e per sviluppare le capacità di attenzione.
I primi vent’anni della nostra vita sono quelli in cui il cervello cambia maggiormente e si formano i circuiti fondamentali che funzioneranno per il resto dell’esistenza. Quindi qualsiasi effetto positivo o negativo sarà più pronunciato, nei ragazzi».
       «Le preoccupazioni sull’uso di nuovi media si ripetono in ogni tempo – sostiene Juan Carlos de Martin, professore di ruolo presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino – . Platone riferiva l’antica paura che l’introduzione della scrittura avrebbe danneggiato la memoria degli uomini, mentre Schopenhauer prevedeva che i romanzi avrebbero rovinato i giovani... Ma l’umanità ogni volta si è adattata, usando i nuovi media per aumentare conoscenza e creatività».
        Secondo lui Spitzer avrebbe anticipato un po’ troppo i tempi: «Molte delle sue critiche vanno prese sul serio, ma penso che sia presto per dare giudizi tanto aspri su media che esistono solo da pochi anni: aspettiamo che il loro uso si normalizzi, e vedremo che molti degli eccessi attuali spariranno. È comunque ovvio che anche i nuovi media digitali, come i vecchi, dovrebbero essere usati in modo appropriato e ragionevole, soprattutto dai più giovani. Ma proprio i più giovani devono avere anche gli strumenti per decifrarli».
James Steyer, amministratore delegato e fondatore dell’organizzazione no profit americana Common Sense Media, parla di una «crescita straordinaria per i nostri bambini». Osserva: «In passato, potevamo misurare e controllare esattamente dove, quando e come usavano i display. Oggi i dispositivi mobili li seguono passo, passo. Il modo di fruire di questi nuovi media può avere un effetto profondo sul loro apprendimento, sviluppo sociale e comportamento. Il solo mezzo per massimizzare l’effetto positivo, e minimizzare quello negativo, è di avere un’esatta comprensione del ruolo che questi device hanno sulla loro vita. Questi bambini sono davvero nativi digitali». <

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