Corrieri su due ruote

di Giovanni Godio Abbiamo provato a seguire un bike messenger Corrieri su due ruote Macinano 70, 80, fino a 100 chilometri e ...

di Giovanni Godio





Abbiamo provato a seguire un bike messenger

Corrieri su due ruote
Macinano 70, 80, fino a 100 chilometri e più al giorno
sull’asfalto delle metropoli. Veloci nel traffico, perché il
ciclismo metropolitano sarà ecologico e sostenibile, ma non è
detto che sia slow e riposante. Sono i bike messenger. 


In sella a bici ridotte all’osso, zainetti in spalla, livrea della ditta e casco in testa Anche in Italia sono sbarcati i corrieri in bicicletta, figli di una lunga tradizione negli Stati Uniti.

Una sudata intervista
Scusa Valerio, ma vai sempre così tranquillo? – è la nostra prima domanda. «Veramente… no». Torino, ore 9.40. Pioviggina. Con pedalata slow siamo partiti dall’ufficio operativo della ditta in corso Francia: Valerio Giordano, 26 anni, bike messenger di Ponyzero, la società torinese di bike delivery, e noi di DN.
Valerio non parla molto ma si interessa di chi sei, di cosa fai, di quanto pedali. Noi del suo lavoro, di come ci è arrivato. Ma dopo il «veramente no» l’intervista volante inizia a fare i conti con un evento collaterale: a poco a poco Valerio accelera…
E intanto racconta. «Un anno fa mi era scaduto il contratto a termine al bowling dove lavoravo. Che fare? Ho pensato di provare come bike messenger in proprio. Cercavo una bici-cargo, e dove le vendono mi hanno parlato di Ponyzero. Sono andato da loro – perché farci concorrenza? – ed eccomi qui».
Un contratto dignitoso, «sì, ci si vive», e via in bicicletta a ritirare e consegnare buste, plichi e pacchi dalle 9.00 alle 18.00, a tempo pieno, con zainetto impermeabile e l’iPhone sempre a portata di mano per le comunicazioni con la base.
Quanti chilometri macini in una giornata di lavoro? «Un giorno mi è capitato di farne 110, ma in genere sono meno, anche molti meno». Velocità media in servizio? «Una volta sono arrivato ai 50, però mediamente direi sui 30, 35». Se vi pare poco, se anche voi (come noi) siete dei normali ciclisti urbani e avete un ciclocomputer, provate a raggiungere i 30, a tenerli per mezz’ora e poi diteci…

Valerio fa sul serio
Dopo due passaggi in altrettanti uffici del centro storico Valerio ha preso per la zona della “Spina tre”, verso la periferia Nord. E accelera ancora. Adesso fa sul serio e noi, sul bordo di una rotonda, dobbiamo stare attenti a non schizzare fuori strada. Via Livorno: si smonta e si lega la bici alla sede dell’Environment Park, in uno dei quartieri più nuovi della metropoli. Sosta. Consegna in segreteria.
Si slega e si riparte, ma questa volta Valerio è una scheggia. Decide per una variante: in mezzo a giardini e condomini infila una lunga, spettacolare passerella ciclopedonale a pendenze variabili. Salita, tratto in piano, salita, piano, discesa, piano e poi di nuovo discesa a razzo, dietro al nostro messenger che rimpicciolisce all’orizzonte. Ma non troppo a razzo (frena!), perché al fondo Valerio sterza subito a destra… Via Livorno di nuovo in vista, un semaforo rosso: lui è lì, non l’abbiamo perso. O meglio, di sicuro ci ha aspettato. Uff!
Senti, ma… per te la bicicletta che cos’è? «Ci andavo molto da bambino e l’ho ripresa più tardi. Per me la bici è libertà: al di là dell’ecologia, ti muovi come vuoi e in strada non dipendi da nessuno. Mi piace così. Sì, anche quando piove».
Siamo di nuovo ai bordi del centro città. Falsopiano in salita (chi l’ha detto che Torino è in pianura?), curva a destra e già Valerio sfreccia su per via San Donato (altro falsopiano in salita), ormai così veloce che fatichiamo a stargli dietro (ma come fa ad accelerare così?). Ancora un paio di svolte, forse un chilometro e mezzo ed eccoci di ritorno alla base di corso Francia. Sono le 10,40, più o meno: fine di un’ora da messenger.

       
SAN FRANCISCO
Travis H. Culley: “Questo mestiere è cambiato,
ma può sempre renderti migliore”
In un libro scritto in prima persona (Il messaggero, Garzanti 2001) l’americano Travis H. Culley, allora corriere in bicicletta, un po’ d’anni fa ha fatto conoscere in Europa la lotta per la “sopravvivenza”, la vita e l’impegno dei bike messenger di Chicago. DN lo ha ritrovato a San Francisco, dove vive oggi.
Travis, lei non fa più il messenger, vero?
«Vivo da sempre fra librerie e biciclette: sto lavorando a un secondo libro autobiografico e presto (si spera!) avrò un posto da educatore. Non ho l’auto, perlopiù uso la bici…».
Le metropoli degli Usa sono un po’ più friendly con i ciclisti rispetto ai tempi del Messaggero?
«Molto è cambiato, anche se non è facile dire se sono in buona salute o sono state “recuperate”. La bicicletta è più usata dagli adulti per andare al lavoro, si sta diffondendo come comune mezzo di trasporto, ma c’è ancora molto da fare perché nel centro della maggior parte delle nostre città si possa pedalare in sicurezza».
E lei, è ancora il ribelle di allora?
«Sono cambiato anch’io. Non passo più col rosso, pedalo con prudenza, porto il caschetto. Riconosco che il 90% della sicurezza sta nella comunicazione, cosa che richiede rispetto reciproco. Mi scuso con i lettori del mio primo libro se non ci trovano scritto a grandi lettere il messaggio “usate il cervello!”. Bisogna dirlo forte: siate prudenti, comunicate prudenza in strada, perché bisogna rispettare e tutelare i diritti di tutti. Certo, compresi i tuoi…».
Le condizioni di lavoro dei bike messenger sono cambiate?
«La tecnologia ha cambiato le città. Fare consegne in bicicletta non è più “sfrecciare nel traffico”. Ai miei tempi, quando avevamo addosso ricetrasmittenti che sembravano pigne, il mondo era più semplice e la velocità di spostamento in strada e nei meandri dei palazzi contava di più. Oggi con certe società di corrieri lavori tramite una app sul cellulare. E i corrieri sono di diversi tipi. Per farla breve, direi che il corriere di ieri è stato fermato dai cambiamenti nella sicurezza dopo l’11 settembre 2001: da allora è più difficile varcare la porta degli edifici in cui entravi ogni giorno per le consegne, il lavoro si è ridotto. Questo ha portato a nuovi servizi di consegna in bicicletta, come quelli per i ristoranti di fast-food: il loro successo ha ispirato uno stuolo di corrieri che servono appartamenti privati, portando alimenti e medicine».
Che cos’hanno da “dire” i bike messenger alle metropoli di oggi?
«Posso parlare per me. Sono stato corriere perché vedevo gli equivoci che saturavano la società sui concetti di tempo, spazio e denaro, ma anche sui suoi compiti: il vicino era lontano, il giusto sbagliato, i valori base della società urbana capovolti in funzione delle politiche sui trasporti. Mi accorgevo che le auto non rendono la vita più facile: rendono miope la società, spingendo la gente a consumare benzina. A mio avviso sono la “violenza” del trasporto a motore e le pressioni politiche globali ad aver come istituzionalizzato quella violenza che costituisce un problema chiave nelle città del mondo. Le auto uccidono, dividono la popolazione, erodono lo spazio pubblico, la libertà di parola e le relazioni umane. E questo non è cambiato».
Suggerimenti per un giovane che aspira al mestiere di ciclo-corriere?
«Cerca di essere… sveglio. Ama i tuoi strumenti di lavoro. Non aspirare alla fama o alla gloria, ma fai questo lavoro solo perché ti renderà migliore. Mantieni la concentrazione, e il tuo carattere. Ricorda che il vero “posto di lavoro” di un corriere è la sua discrezione. Non lasciar trasparire la fatica del tuo impegno, e il lavoro verrà».


  A Milano la prima società                                   
DN ha censito 23 servizi di bike delivery oggi attivi in Italia da Nord a Sud, nelle città principali ma non solo. Nel Belpaese ha cominciato Roberto Peia, giornalista scettico sul futuro dell’editoria, che con due soci nel 2008 ha fondato a Milano la Ubm - Urban Bike Messenger con il motto «Consegniamo una Milano più pulita». A dispetto della crisi oggi ha 25 collaboratori. Peia ha raccontato l’inizio della sua esperienza nel libro Tutta mia la città (Ediciclo 2011) e sempre a Milano ha fondato l’Upcycle Café di via Ampère, un «urban bike café d’ispirazione nordeuroepea» (per saperne di più: www.upcyclecafe.it). A Torino il servizio Ponyzero ha fatto il salto di qualità costituendosi in Srl nel giugno 2013. «Ci sarà la crisi ma noi siamo in crescita», conferma Marco Actis, 29 anni, laurea in lettere, uno dei soci fondatori con Davide Fuggetta, di trent’anni.

   Ruote ribelli a San Francisco                              
«Verso la fine degli anni ’80 i corrieri in bicicletta costituivano una fiorente sottocultura della working class di San Francisco – scrive Chris Carlsson, tra i fondatori dei raduni di protesta ciclo-urbana di Critical Mass, nella prefazione al libro Tutta mia la città –. In quegli anni i messenger circondarono pedalando il Municipio per protestare contro i tentativi di imporre loro autorizzazioni e regole. E intorno al ’95 iniziò una campagna che portò alla firma di contratti sindacali da parte di due imprese…». Oggi, sempre da “Frisco”, Carlsson dice a DN: «Non posso parlare in loro nome. Ma quanto vorrei che alcuni di loro tornassero ad emergere come vigili portavoce della working class, per rispondere alla stupidità della società liberista e alla sua organizzazione del lavoro!».

  Cultura messenger 1 Scatto fisso, sintonia “zen”    
Roberto Peia di Ubm le aveva viste negli Usa 30 anni fa e le usava a Milano già alla metà dei ’90: «Mi guardavano strano – dice a DN –. Io però il freno ce l’avevo…». Parliamo delle bici a scatto fisso, cioè senza ruota libera: per fermarti, a rigore non hai bisogno di freni perché ti basta far forza con le gambe (se sai farlo). Lo scatto fisso fa parte dell’immaginario del mondo messenger. «Ti mette più in sintonia con il mezzo – spiega Peia –, tanto che è anche visto un po’ come… una cosa “zen”. Di certo alleggerisce la bici ed evita la manutenzione del cambio. Alcuni dei nostri ragazzi lo usano». In realtà oggi i messenger hanno in dotazione un po’ di tutto: scatto fisso, Mtb, bici senza cambio o da corsa…

  Cultura messenger 2/ Gatti randagi in corsa           
Un paio di altre “voci” del versante più “underground” dell’ambiente? Eccole. Alleycat, “gatto randagio”, indica le gare in bici autogestite in cui il percorso non è noto fin dall’inizio. Spoke card, invece, è una carta plastificata da tenere fra i raggi delle ruote per diversi usi. Ma i bike messenger hanno anche ispirato film: l’ultimo è Premium Rush del 2012, Usa, regia di David Koepp (in Italia Senza freni, Dvd 2013), dove un poliziotto corrotto insegue un ciclo-corriere che ha per le mani una busta che “scotta”.

  Dischi volanti on the road                                          
Con qualsiasi tempo i ciclo-corrieri trasportano in città (quasi) di tutto: dalle buste ai… tavoli rotondi da 8 posti se hanno una bici-cargo, come è capitato a Ponyzero: «Mentre pedalavo in strada mi guardavano come un marziano – ricorda Marco Actis –. Ma l’importante alla fine è far capire che siamo affidabili».

  Bicicletta, femminile singolare                                        
E l’altra metà del cielo? Sicuramente è minoritaria nell’ambiente. Ma c’è, e si vede. Ad esempio oggi lavorano con Ubm, a Milano, due ragazze: una, Stefania, ha fatto anche il Giro d'Italia femminile. Ma in passato sono state anche quattro. Una di loro, Nora, finlandese, prima che a Milano ha fatto la messenger a Helsinki. Oggi continua la professione a Ginevra con il compagno, un messenger conosciuto a un torneo di bike polo e con il quale ha avuto un bimbo.

   Velocità: bici batte auto 3-0                                       

I pony su due ruote filano sui 30-40 all’ora. Così ci è frullato in testa un retropensiero: non è che nella libertà e nella “sostenibilità” di questo mestiere si annida pur sempre la fretta di un mercato che impone ritmi forsennati per sopravvivere? Risponde Marco Actis di Ponyzero: «Ai nostri messenger diciamo che il Codice della strada va rispettato. E se nei suoi limiti si corre è, direi, più per passione che per obblighi di performance. Davvero non abbiamo bisogno di ammazzarci: oltre che più economici del traffico a motore (meno costi fissi, no benzina o gasolio) siamo più veloci comunque». Una conferma alle sue parole: in una gara organizzata nel 2012 nel traffico del centro di Roma da Legambiente e dal movimento #Salvaciclisti, lungo 7 km si sono sfidati tre automobilisti ai quali erano stati imposti tre diversi limiti di velocità (30, 40 e 50 km all’ora) e tre ciclisti. Tutte e tre le auto, impantanate nel medesimo flusso di traffico, ci hanno messo quasi mezz’ora. I ciclisti meno della metà, 11 minuti.

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