ARMI: vergognoso commercio

di Giovanni Godio   ARMI: vergognoso commercio La spesa militare globale diminuisce: colpa della crisi. Ma il Sud de...

di Giovanni Godio














 
ARMI: vergognoso commercio

La spesa militare globale diminuisce: colpa della crisi.
Ma il Sud del mondo spende sempre di più,  e le fabbriche d’armi del Nord si danno alle esportazioni...  Per fortuna ha funzionato (almeno) il processo di disarmo chimico della Siria.

Dollari e armamenti
Nel 2013 la spesa militare del mondo è stata
di 1,747 miliardi di dollari.
Armi, dunque guerra. Che banalità, che semplificazione, che ingenuità. Le armi sono strumenti, e dipende dall’uso che se ne fa, e fanno da deterrente, e poi bisogna essere realisti, e noi le usiamo solo nelle missioni di pace... Poi senti papa Francesco che in aereo, di ritorno dalla Turchia, dice: «È un’opinione personale, ma sono convinto che noi stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi, a capitoli, dappertutto. Dietro questo ci sono inimicizie, problemi politici, problemi economici – per salvare questo sistema dove il dio denaro è al centro, e non la persona umana – e commerciali. Il traffico delle armi è terribile, è uno degli affari più forti in questo momento. È per questo io credo che si moltiplica questa realtà, perché si danno le armi».

È il mercato, bellezza!
Sarà un’“opinione personale”, ma papa Bergoglio il concetto l’aveva già espresso senza giri di parole nell’ufficialissimo messaggio per la Giornata della pace 2014: «Finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità». E allora? E allora, noi abbiamo sentito il bisogno di saperne qualcosa di più, con i dati e i trend più aggiornati.
Abbiamo subito scoperto, come raccontiamo in questo dossier, che la crisi economica globale ha colpito anche sul business degli armamenti: nel 2013 la spesa militare nel mondo, qualcosa come 1.747 miliardi dollari, è scesa del 2% rispetto al 2012. Ma è cresciuta nell’inquieta Europa orientale (+ 5%), nell’Africa della fame e dell’instabilità (addirittura + 8%), nell’esplosivo e tumultuoso Medio Oriente (+ 4%), in Asia orientale (+ 5%), sudorientale (+ 5%) e centro-meridionale (+ 1%). Mentre il grosso del business rimane nelle mani di società e Paesi del Nord del mondo... Tutto questo, ovviamente, nei limiti del solo mercato “legale” di armi e servizi militari.

La ricerca della pace passa anche attraverso
le tante persone che si battono per il disarmo.
Un’altra difesa è possibile!
Ma detto questo, e al di là dei dati e delle analisi che abbiamo raccolto, esistono delle alternative realmente percorribili? La risposta è sì, per fortuna. La prima che indichiamo è già (quasi) realtà: pur in questi tempi difficili, l’Onu è riuscita a far entrare in vigore, giusto alla fine del 2014, un Trattato internazionale sugli armamenti che potrebbe rivelarsi importante per il controllo e il monitoraggio dei sistemi d’arma “convenzionali”, causa di 500 mila morti ogni anno in tutto il mondo.
Invece, cittadini e gruppi interessati a tenere d’occhio ciò che avviene nel mercato globale (e nazionale) delle armi possono far riferimento al sito della Rete italiana per il disarmo, www.disarmo.org. Della Rete fanno parte, tra l’altro, le Acli e l’Associazione Papa Giovanni XXIII. Due link d’assaggio in homepage? Da non perdere “Rete Disarmo al Parlamento: perché non controllate l’export armato?” e “Un’altra difesa è possibile, al via l’iniziativa”.

C’è la crisi?
Puntiamo sull’export
Ian Anthony
Ian Anthony, inglese, classe 1960, ultima pubblicazione su Africa e mercato globale dell’uranio naturale, è oggi direttore del Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute. Questo istituto indipendente è stato fondato nel 1966 su iniziativa del Regno di Svezia per ricordare i 150 anni di pace ininterrotta nel Paese. E lo scorso autunno ha presentato il suo Annuario 2014.
DN ha raggiunto Anthony a Stoccolma, dopo che l’ufficio stampa del Sipri ci ha ricordato che l’istituto contribuisce al dibattito su armi e armamenti con fatti e dati, ma non con “opinioni forti”, cioè con valutazioni politiche o ideali. Detto, fatto...

Dottor Anthony, qual è il trend del mercato globale delle armi oggi?
I trend principali sono due: il calo di spesa militare in Occidente (o meglio nel Nord del mondo), soprattutto per la fine di conflitti e la crisi economica, e un aumento nel Sud. I due trend spiegano la diminuzione relativamente modesta della spesa militare globale dal 2010.
L’industria delle armi del Nord rimane la più avanzata a livello globale. E si rivolge all’export per controbilanciare il calo o la stagnazione delle commesse nazionali. Perciò nel settore la competizione è feroce: nel settore dei trasferimenti, secondo i nostri dati, si registra un aumento di valore del 14% per il periodo 2009-2013.

Insomma, secondo lei stiamo andando verso un mondo più o meno sicuro rispetto ieri?
Il complesso contesto odierno in Asia (Asia centrale, estremo Oriente e medio Oriente), associato a un’accresciuta disponibilità di armi, non è esattamente favorevole a una prospettiva di mondo più sicuro...

Si procede allo smantellamento delle armi chimiche
Non c’è almeno qualche “buona pratica” recente di disarmo, da qualche parte?
Sì, un buon esempio di processo di controllo degli armamenti è lo smantellamento del programma di armi chimiche della Siria, per il suo carattere ibrido. Hanno collaborato fra loro vari organismi internazionali, con il contributo chiave di alcuni Stati e in una cornice che ha visto all’opera il Segretario generale e il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma anche un trattato multilaterale di disarmo. Si è potuto lavorare in una situazione di conflitto in cui le autorità centrali del Paese hanno perso il controllo del territorio nazionale...

Ma a che punto siamo con questa faccenda, oggi? Qui in Italia se ne era parlato molto mesi fa, con il passaggio di un carico di sostanze tossiche siriane a Gioia Tauro, poi tutto è finito nel dimenticatoio.
Le munizioni siriane per ordigni chimici non caricate (soprattutto bombe aeree) e i contenitori di stoccaggio sono stati resi inutilizzabili. Le sostanze chimiche dichiarate e i loro precursori sono stati in gran parte distrutti.
Un posto di blocco dell'ONU
per impedire il traffico delle armi.
Rimangono da distruggere circa 30 tonnellate di sostanze chimiche della cosiddetta “Categoria 2 - Priorità 2” (sostanze che fanno da precursori alle sostanze chimiche per uso bellico e che in gran parte sono di uso industriale civile, ndr), ma oggi si trovano fuori dalla Siria: sono in via di eliminazione sotto controllo dell’Opcw (l’Organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche).
Si discute ancora, soprattutto nel Consiglio esecutivo dell’Opcw, sulla completezza e la correttezza delle dichiarazioni della Siria sul suo programma chimico militare, e in particolare sull’opportunità e il modo per distruggere gli hangar per lo stoccaggio di armi chimiche, e sulle lavorazioni con la ricina (una tossina letale, ndr) condotte in un impianto che oggi non è più sotto il controllo del governo...

Su questo a Damasco cosa dicono?
All’inizio, che queste lavorazioni erano allo stadio di ricerche esplorative di laboratorio, abbandonate anni fa. Ma alcuni membri del Consiglio esecutivo Opcw hanno chiesto ulteriori chiarimenti, anche sullo stato attuale dell’impianto (o degli impianti) dove si lavorava la ricina. Infine, sono in questione alcuni dettagli residuali sul numero esatto di luoghi, siti e impianti chimici, in particolare quelli fuori del controllo del governo.

Italia: F-35, il caccia delle polemiche
Caccia F-35, l’Italia va avanti. Tra poche certezze e tante polemiche. «In Parlamento sono state approvate quattro mozioni impegnative per il Governo: si chiede di andare avanti con il programma, di ridurre il più possibile l’impatto finanziario, di massimizzare i ritorni economici, industriali e occupazionali, avendo sempre come riferimento la sicurezza del Paese», riassumeva in autunno il ministro della Difesa Roberta Pinotti in commissione Difesa del Senato.

L'F-35 è in fase di produzione- Ma molte sono
le perplessità nate intorno a questo progetto.
Dunque, affermava il ministro, bisogna che «sia dato mandato di procedere almeno alla firma dell'impegno relativo all’anno in corso per la produzione di un lotto di due velivoli...». Una delle quattro mozioni parlamentari ha stabilito il dimezzamento del budget a disposizione dei caccia.

Quest’affare s’ha da fare
Ma il Joint Straight Fighter F-35 ci serve davvero? Sempre secondo il ministro Pinotti, questo aereo ci permetterà «ad esempio di intervenire nella coalizione contro l’Isis (in Iraq e Siria, ndr) come stanno intervenendo l’Inghilterra, la Francia, la Danimarca... Nel caso in cui si abbiano obiettivi a terra che possono essere pericolosi (come pozzi di petrolio o depositi di armi) e che si decida di distruggerli per evitare che questi possano essere usati contro i curdi, l’Italia ha scelto quel tipo di velivolo».
Però a questo punto si impone un riassunto delle puntate precedenti. L’F-35 è un cacciabombardiere di “quinta generazione” con caratteristiche stealth, cioè di bassa rilevabilità da parte dei sistemi radar. Il programma di produzione fa perno sugli Usa (capocommessa la Lockheed-Martin), in collaborazione con altri Paesi fra cui l’Italia, che ha aderito nel 1998. Da noi la base di assemblaggio è a Cameri, nel Novarese, con un totale di “ricaduta” in posti di lavoro a règime piuttosto controverso.
Alla fine del 2014, alla sede del ministero della Difesa, presente l’ambasciatore americano John Phillips, Roberta Pinotti ha informato che lo stabilimento di Cameri è stato scelto «per essere il polo di manutenzione di tutti gli F-35 che voleranno in Europa, sia di quelli che acquisteranno i Paesi europei, sia di quelli americani: un risultato straordinario che dobbiamo alla credibilità del nostro Paese».
Costo stimato medio di un F-35: 120 milioni di euro. Quanti ne compreremo in tutto? Non si sa ancora, a dispetto delle cifre che rimbalzano di tanto in tanto sui media (e del “dimezzamento” votato nelle mozioni che ricordavamo sopra).





Meglio lasciar perdere
Francesco Vignarca
Quello che è certo, è che contro il programma F-35 si è mobilitata fin dal 2009 una campagna di società civile promossa dalla “Rete italiana per il disarmo” e dalla campagna “Sbilanciamoci!” (www.facebook.com/taglialealiallearmi). Non è facile che quotidiani e grandi media diano spazio alle posizioni del network “Taglia le ali alle armi”. Ma nel libro F-35, l’aereo più pazzo del mondo (Round Robin, 2013) Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete disarmo, ha documentato le tesi della campagna non solo con argomenti “disarmisti”, ma anche “strategici” e “tecnici”.
E oggi dice a DN: «La nostra principale contestazione dal punto di vista tecnico è che siamo ormai a 10 anni di produzione... senza aver completato la progettazione. Non su dettagli, ma su aspetti chiave come il software, che dovrà fare la vera differenza tra l’F-35 e i caccia precedenti. È come se comprassi un’auto e ti dicessero: “Guardi, non sono ancora stati fatti tutti i test, è possibile che la centralina non funzioni bene. Ma intanto la compri, e poi ce la riporti”. Il rischio non è solo quello di comprare aerei costosi e dal nostro punto di vista inutili, ma anche non “maturi” dal punto di vista tecnico-militare».

Insomma, conclude Vignarca, «questa vicenda può, anzi deve interessare anche il cittadino che non parte da una prospettiva non violenta, ma semplicemente desidera capire, da contribuente, come si spendono i suoi soldi. Peraltro, anche sul versante delle critiche strategiche non ci siamo solo noi, ci sono fior di generali e analisti militari che confermano le nostre perplessità». <

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.Dossier 8901680735262101092

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