Lingue nel mondo
Ci sono lingue che non si parlano più da secoli, ma che si continuano a studiare a scuola. Come l’aramaico parlato da Gesù o il greco ant...
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Ci sono lingue che non si parlano più da secoli, ma che si continuano a studiare a scuola. Come l’aramaico parlato da Gesù o il greco antico. Ci sono lingue che sono state la lingua franca di molti popoli e che ora sono usate soltanto in piccole aree. Come il latino, ora adoperato nei documenti ufficiali del Vaticano. Ci sono lingue numericamente diffuse, ma che si usano esclusivamente in alcune regioni di un determinato Stato. Come, in Cina, il mandarino e il cantonese. Ci sono lingue che si usano in certi àmbiti, come (anche se in declino) il francese in diplomazia. E di questo si ricordarono i gerarchi nazisti quando nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, per far sfilare per primi i loro atleti e la bandiera con la svastica, adottarono appunto questa lingua: Deutschland divenne Allemagne. C’è una lingua che, nata in un Paese, è ormai universale: l’inglese, anche se con notevoli varianti negli Usa e in Australia. E ci sono lingue specifiche di alcune etnie che andrebbero protette e che, invece, sono destinate a scomparire entro pochi decenni.
Per la maggioranza degli studiosi, nel mondo oggi ci sono oltre seimilacinquecento lingue, ma in questo secolo l’inarrestabile (e implacabile) diffusione di alcune, ne farà scomparire oltre la metà. Infatti, più gli adulti si spostano da un Paese all’altro per turismo o lavoro, più fanno ricorso a idiomi diversi dalla loro “madrelingua”. In modo analogo, più i bambini di “minoranza” usano una parlata “straniera”, più l’idioma d’origine diventa inutile e quindi, dapprima è relegato a ricordo e infine dimenticato. Il discorso vale a maggior ragione per i dialetti. È impossibile, comunque, fissare il numero delle lingue. Nella stessa Italia, per esempio, alcuni studiosi definiscono una parlata come lingua, o all’opposto come dialetto. Per capirci: per i più, il piemontese (ma sarebbe già più corretto dire: il torinese, l’astigiano, il cuneese, ecc.) è un dialetto; il veneto, invece, in genere, è considerato lingua.
Un primo dato, comunque: sulla base di dati Onu-Unesco riferiti al 2007, le otto lingue oggi più diffuse sono usate da oltre la metà della popolazione mondiale, e la prima - il cinese o meglio, il mandarino - da una persona su sei. Nella classifica, seguono l’inglese (per motivi economici, tecnologici e politici è sempre più “lingua dell’impero”), lo spagnolo (ormai parlato da oltre la metà degli statunitensi, molti dei quali originari del Messico e di Paesi già colonie spagnole), il francese, l’hindi, il russo, il malese, il portoghese. Seguono l’arabo (pur non ufficiale in tutti gli Stati arabi), il bengalese e l’italiano. Questo è parlato come lingua madre da 75 milioni di persone (comprese molte residenti in Svizzera, Slovenia, Croazia, Canada, Usa, Somalia ed Eritrea ) e da 125 milioni come seconda lingua (per alcuni studiosi, infatti, molti italiani usano come lingua madre il dialetto e come secondaria l’italiano).
Proprio per non perdere le rispettive “radici” nazionali, l’Unione Europea oggi adotta 23 lingue in rappresentanza dei 27 Stati membri. Gli idiomi sono minori, perché alcuni parlati in più Paesi: ad esempio, il greco è parlato anche a Cipro e l’inglese pure a Malta e in Irlanda (dove si affianca al gaelico). Sono ricorrenti le richieste per ridurre le parlate “europee” a tre (inglese, francese e tedesco), anche per contenere i costi di traduzione di tutti i documenti; ma sinora sono state fermate dalle proteste per le ripercussioni socio-economiche su chi diventerebbe “minoranza” (tra le tante: le minori possibilità di accesso al mercato del lavoro). All’interno dell’Unione, poi, ci sono parlate che pur non nazionali, non sono neppure dialetti: è il caso del catalano, o del basco, o dell’occitano.
Di certo, alcune di queste sono “a rischio”, così come in Asia lo sono il mongolo e il giavanese, in Africa il somalo e il tigrino, in Sud America le 170 parlate di indios brasiliani. Senza pensare, poi, alle centinaia di lingue quasi scomparse perché usate da poche centinaia di persone. A conferma, un recente studio compiuto da ricercatori della Penn State University, in Pennsylvania (Usa), ha rilevato che nelle aree in cui è maggiore la biodiversità di fauna e flora, si registra anche la maggiore biodiversità linguistica. Come dire che oltre la metà dei linguaggi è parlata all’interno di “paradisi naturali”, che proprio per questo rischiano a livello sia naturale, sia della lingua.
Per tornare a parlate più vicine a noi, Sergio Salvi nel volume “Le lingue tagliate”, pubblicato nel 1974, scriveva: “Tra pochi decenni in Italia non ci saranno più minoranze. Tutte le lingue diverse dall’italiano saranno tagliate”. E nel 1986, in “Italiani dimezzati”, Massimo Olmi aggiungeva che il modo scelto era “la totale indifferenza, nella convinzione che prima o poi una coltre di silenzio si sarebbe stesa su tutti gli altri ‘diversi’”. Quelle previsioni fortunatamente non si sono avverate. Anche se dei quasi tre milioni di italiani che usano lingue di minoranza, soltanto valdostani, bolzanini e sloveni sono tutelati da apposite norme. Come dire che, proprio perché non si usa la lingua nazionale, pur vivendo in uno stesso Stato, non tutti sono cittadini allo stesso modo. In altre parole, come è stato osservato, “alcune persone sono nella società senza essere della società”. Motivo in più per un “ripasso” su questa ricchezza storica e culturale del nostro Paese (l’ordine seguito è quello geografico).
Occitano
È la famosa “lengo [lingua] d’oc” nota a due milioni di francesi e a 180 mila italiani, che vivono in vallate cuneesi e torinesi, nell’Imperiese (in particolare a Olivetta San Michele) e persino in Calabria, a Guardia Piemontese. Il termine deriva dal latino “hoc”, che nel Medioevo era usato in quelle aree per dire sì (per lo stesso motivo, il francese è la lingua d’“oil” e l’italiano quella del “sì”, dal latino “sic”). Secoli fa, l’occitano era conosciuto in gran parte d’Europa perché era lingua dei trovatori, e le differenze locali erano minime. A conferma, oggi gli occitani cuneesi dialogano senza eccessiva difficoltà con i “cugini” della Linguadoca (più chiaro di così!), del Massiccio centrale e di alcune vallate dei Pirenei. Tipica di questa lingua è la desinenza in “o” per gran parte dei nomi femminili. Per esempio, lano, nouveno, rouò, sacrestio, solario, corrispondono alle parole italiane lana, novena, ruota, sacrestia, meridiana. L’occitano è detto anche provenzale, ma molti studiosi riservano questo termine alla parlata dell’antica contea di Provenza.
Walser
Il nome di questa parlata tedesca deriva dal walliser, vallese. La usano i discendenti degli alemanni che attorno al sec. XIII si stabilirono nel Cantone svizzero del Vallese e attorno al Monte Rosa, e in particolare nei Comuni di Alagna in val Sesia, di Macugnaga in val d’Ossola e di Gressoney in valle d’Aosta. Per la diversità di lingua e costumi, hanno vissuto isolati sin verso il Seicento, quando hanno iniziato a sfruttare le risorse naturali locali e in particolare le miniere d’oro in val Sesia. Delle antiche origini restano i cognomi, le tradizioni e i costumi, oltre ad alcune caratteristiche (e ormai antiche) case in legno. Piccole aree walser si trovano pure nelle province di Verona, Vicenza, Belluno, Udine. In tutto, circa 15 mila persone.
Ladino
L’origine neolatina della lingua è nel nome stesso. Diffusa dalla svizzera Engadina sino all’alto Adriatico, ha tre varianti. Innanzi tutto, il ladino occidentale, proprio del cantone dei Grigioni, parlato da circa 50 mila persone e diventato quarta lingua svizzera (dopo il tedesco, il francese e l’italiano). Poi, il “ceppo” dolomitico, usato da 15-20 mila italiani, sparsi in val Badia e val Gardena (Bolzano), in val di Fassa (Trento) e nei Comuni di Livinallongo e Ampezzo (Belluno). Infine, il ladino orientale o friulano, parlato da quasi mezzo milione di persone residenti nella Carnia, in provincia di Udine.
Tirolese
Parlata d’origine tedesca, usata in provincia di Bolzano e, ovviamente, nel Tirolo austriaco. All’origine dell’attuale divisione politica, c’è l’espansione dei conti di Tirolo: nel sec. XIII estesero i loro domini dal castello di Merano a Lavis (in provincia di Trento); poi, la contea passò agli Asburgo e infine, dopo la prima guerra mondiale, il territorio a sud del Brennero fu unito all’Italia insieme a Bolzano e a Trento. Anche i tirolesi sono molto attaccati alle tradizioni. Il costume tradizionale maschile, per esempio, è formato da lunghe calze bianche di lana, calzoni corti scuri, cinturone di cuoio lavorato, panciotto e cappello con cordone rosso per gli scapoli e verde per gli sposati. I tedeschi nel Südtirolo (o in italiano, Alto Adige) sono circa 300 mila.
Sloveno
I primi documenti scritti di questa lingua d’origine slava risalgono agli anni tra il 990 e il 1014. Tuttavia, dalla metà del sec. XVI si adotta l’alfabeto latino invece del gotico. Altra data importante è il 1843: sono introdotti nuovi segni per le lettere mancanti all’alfabeto latino. Oggi lo sloveno è parlato da circa 150 mila italiani, soprattutto nelle province di Gorizia e di Trieste. In passato erano di più: dopo la prima guerra mondiale e sino al 1945, infatti, facevano parte di queste province vari Comuni dell’odierna Slovenia e l’attuale capitale, Lubiana, è stata capoluogo di provincia italiana. Altrettanti sarebbero gli sloveni sparsi per l’Europa e 300 mila quelli emigrati nelle Americhe.
Sardo
Per alcuni glottologi più che una lingua, sarebbe la somma di quattro dialetti: il campidanese (parlato nella pianura cagliaritana), il gallurese (nell’area settentrionale dell’isola, di fronte alla Corsica), il sassarese e il logudorese, considerato il “sardo” per eccellenza (la parola deriva da Logudoro, l’area nord-occidentale che formava uno dei quattro “giudicati” o divisioni dell’isola). Fonetica e lessico confermano l’origine latina. Il sardo sarebbe parlato da 1.650.000 persone; in pratica, quasi tutti gli abitanti dell’isola, meno i “catalani”.
Catalano
In Sardegna, e più precisamente ad Alghero (Sassari) e nella piana del Campidano (Cagliari), vivono i discendenti di coloro che nel Quattrocento lasciarono Barcellona, Saragozza, Valencia e altre città spagnole per venire in Italia (all’epoca, il regno d’Aragona andava dalla Catalogna alla Sicilia). Così, in quel periodo, nell’isola c’erano tre lingue ufficiali: l’italiano, lo spagnolo e il catalano. Oggi, questo è parlato in Catalogna, ovviamente, nel principato di Andorra, nelle isole Baleari e in alcune cittadine sui Pirenei francesi. I catalani residenti in Sardegna sono quasi 18 mila.
Albanese
È la lingua indoeuropea usata non soltanto dagli immigrati di questi ultimi anni, ma anche da quanti, in particolare nei sec. XV e XVI, si stabilirono in Puglia, in Basilicata, in Calabria (nelle province di Cosenza e di Catanzaro) e in Sicilia (il comune di Piana degli Albanesi è a 24 km da Palermo). Per i servizi da loro offerti, nel sec. XVII hanno avuto la protezione del Governo spagnolo e della Chiesa, ottenendo anche due eparchie (vescovati) di rito greco. Già nell’Ottocento si è cercato di conservare il loro patrimonio di storia, cultura e folclore. Secondo una stima del Ministero degli Interni, sarebbero poco più di 110 mila; per altri, 150 mila.
Altri idiomi
A queste parlate, il ministero degli Interni ne aggiunge altre, che non sempre trovano concordi gli studiosi. Una è il friulano, diffuso in tutta la Regione escluse le aree slovena e germanofona (circa 780 mila persone). Poi, il franco-provenzale, parlato da 90 mila persone in alcune valli cuneesi, torinesi, aostane e persino a Faeto e a Celle San Vito, in provincia di Foggia. Seguono il greco (20 mila persone, in una ventina di comunità calabresi e pugliesi), il francese (11 mila italiani, nelle valli Valdesi e aostane), il croato (circa tremila persone, nei comuni di Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice del Molise, in provincia di Campobasso). A questi, bisognerebbe aggiungere la lingua dei 60 mila sinti e rom (termine che significa uomo, zingaro), presenti nell’intera Penisola.
Camilla Furno