SOLO PER CIVILTA'

L’Italia non è tra i Paesi più virtuosi, per l’osservanza delle più elementari regole di vita civile. E con i massicci tagli alle politiche ...

L’Italia non è tra i Paesi più virtuosi, per l’osservanza delle più elementari regole di vita civile. E con i massicci tagli alle politiche sociali, la situazione dei disabili e delle loro famiglie non può che peggiorare.

Nel giugno scorso, in un comune abruzzese, alcuni consiglieri comunali, assessori e giornalisti si sono seduti in carrozzella per provare direttamente le difficoltà che le persone disabili devono affrontare ogni giorno sulle strade cittadine. Un gesto plateale e forse un po’ retorico, da alcuni giudicato offensivo, che si inserisce in un quadro più ampio di iniziative con cui l’amministrazione di Montesilvano intende diffondere la cultura dell’integrazione e dell’inclusione dei diversamente abili. Ma questi signori che per una manciata di minuti hanno smesso gli abiti di “normodotati” si sono realmente resi conto di quanto sia difficile la vita di chi ogni giorno della propria vita si trova di fronte a veri e propri percorsi di guerra, incontra svariati ostacoli, lotta e suda, studia infinite strategie per essere in grado, prima di tutto, di svolgere i compiti più elementari?

Non solo parole
Handicappati, portatori di handicap, persone con handicap…: mentre si continua a dibattere su quale termine sia più corretto usare, coloro che oggi sono definiti “diversamente abili” continuano a pagare sulla propria pelle molteplici disattenzioni, degni soltanto di familiari pacche sulle spalle da parte di perfetti sconosciuti che si rivolgono a loro come se fossero bambini e dandogli del tu.
Disattenzioni di politici inadempienti, certo, ma anche di quei cittadini che, ad esempio, parcheggiano auto, moto e bici sui marciapiedi, rendendo la vita difficile a chiunque – compresi anziani e mamme con bambini in carrozzina - non sia in grado di muoversi agevolmente tra un ostacolo e l’altro. Eppure, come ha sottolineato di recente Margaret Chan, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della salute, “la disabilità è parte della condizione umana. Quasi tutti noi sperimentiamo una forma di disabilità temporanea o permanente nell’arco della vita. Dobbiamo fare di più per rompere le barriere che segregano le persone disabili, in molti casi spingendole ai margini della società”.

Segno di civiltà
Proprio l’Oms, insieme con la Banca Mondiale, ha recentemente diffuso il primo Rapporto mondiale sulla disabilità: oltre un miliardo di persone, circa il 15 per cento della popolazione mondiale, vive con qualche forma di disabilità, di cui almeno un quinto è costretto ad affrontare difficoltà “molto significative” nella vita di tutti i giorni. Percentuali destinate a salire a causa dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento globale delle malattie croniche.
Discriminazione, mancata assistenza sanitaria e di riabilitazione e barriere architettoniche (trasporti pubblici, edifici e tecnologia informativa inaccessibili) causano una salute generalmente più precaria rispetto alla media, scarse possibilità formative e professionali, povertà ed un livello d'istruzione minore per le difficoltà di accesso agli studi superiori. Non a caso i Paesi a basso reddito registrano percentuali decisamente più alte di disabilità rispetto a quelli ad alto reddito.
Inutile dire che l’Italia – dove nel 1970 è stata approvata la legge sulla eliminazione delle barriere architettoniche – non è tra i Paesi più virtuosi, anche per quanto riguarda l’osservanza delle più elementari regole di vita civile. E con i massicci tagli alle politiche sociali, la situazione dei disabili (e delle loro famiglie) non può che peggiorare.
È sufficiente avere la sfortuna di rompersi - per davvero, non per finta - una gamba o un braccio per sperimentare di persona cosa significhi non essere in grado di compiere gesti prima scontati, banali. E allora provi sensazioni di impotenza, frustrazione, soffri e sei imbarazzato perché dipendi dagli altri, dalla loro capacità di aiutarti, dalle loro attenzioni, dalla loro sensibilità. Però sai che durerà poco, perché poi riprenderai la tua solita vita, il lavoro, gli studi, ricomincerai a guidare, a nuotare, a correre…

Gianni e Simona
Simona, 28 anni, non sa quando riprenderà l’uso del braccio destro, che improvvisamente ha chiuso i contatti col cervello: non si muove, è un peso morto. I dottori ipotizzano di tutto e di più, sottopongono la malcapitata a tutti gli esami possibili, pensano sia una reazione psico-somatica allo stress o a eventi traumatici. Sono trascorsi 5 mesi e Simona continua ad essere “monca”. Eppure continua a fare tutto quello che faceva prima: lavora, esce con gli amici, per giunta vive da sola. È ammirevole quando la vedi infilarsi i collant con una sola mano senza chiedere aiuto. Non si è mai lamentata. “Che senso ha lamentarsi? – dice – Tanto la situazione non cambia e di dipendere dagli altri non ho alcuna intenzione”. Sarà un caso che adesso il suo migliore amico è Gianni, un ragazzo costretto dalla nascita su una sedia a rotelle?
“Gianni è una persona splendida – racconta Simona – Fa sport a livello agonistico, è sempre sorridente e ottimista, lavora, anche se adesso è in cassa integrazione, conduce una vita ‘normale’, neanche ti accorgi della fatica che fa ogni giorno. Mi sta aiutando tanto, mi incoraggia, mi sta trasmettendo una gioia di vivere che non credo di avere mai provato. La sua vicinanza, la sua storia, la sua situazione mi spronano a lottare, ad andare avanti senza commiserarmi e senza cercare la pietà degli altri. Lui non può fare alcune cose, forse, ma non per questo si sente incapace di desiderare, sognare, costruire un futuro. Ecco, adesso mi sento più forte”.
Consentire ai disabili di poter sperare in qualcosa di più della sopravvivenza, rimuovere per quanto possibile quegli ostacoli che rischiano di emarginarli è degno di un Paese civile. Ma, soprattutto, è importante “accorgersi” di loro. “Quando la gente si rende conto che sono cieca diventa subito premurosa – dice Silvia, 30 anni – Pretende di aiutarmi a fare cose che so già fare da sola, mi prende il braccio anziché porgermi il suo, distrae il mio cane… Io non voglio tutte queste attenzioni. Ho imparato ormai a cavarmela da sola. Vorrei però che chi non ha disabilità agisse sapendo che al mondo ci siamo anche noi. Quelle stesse persone che sono subito pronte a farmi attraversare la strada, magari strattonandomi, sono magari poi le stesse che parcheggiano di traverso sul marciapiede o corrono come matti in bicicletta sotto i portici”.
In un mondo dove i ritmi sono sempre più frenetici, le persone più “lente” danno fastidio. Quante volte ci arrabbiamo perché, quando siamo di fretta, c’è sempre qualche impedimento di fronte a noi: un anziano col bastone, una mamma che spinge una carrozzina, una cassiera un po’ imbranata, un disabile in carrozzella… Se questa è la sorte che tocca ai “diversamente abili”, allora, ragazzi, a maggior ragione chi ve lo fa fare a lanciarvi da un ponte o guidare pericolosamente – magari da ubriachi o drogati – un’automobile?

Patrizia Spagnolo

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