Negrita: Legno e metallo
...E poi sono rimasti in tre. Parafrasando il titolo di un vecchio album dei Genesis, And then there were three, anche i Negrita ...
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...E poi sono rimasti in tre.
Parafrasando il titolo di
un vecchio album dei Genesis, And then there were three, anche i Negrita sono diventati
un trio dopo che il bassista Franco Li Causi ha lasciato la band a giugno. È il secondo abbandono, che segue quello del
batterista Roberto Zamagni, avvenuto nel 2003. Defezioni importanti che,
tuttavia, non hanno fermato Paolo “Pau” Bruni, Enrico “Drigo” Salvi e Cesare “Mac”
Petricich, rispettivamente cantante e chitarristi del gruppo aretino, oggi
concentrati su un nuovo progetto che sta dando loro grosse soddisfazioni: il
doppio cd Déjà Vu, che raccoglie i migliori pezzi della loro
carriera in chiave semi-acustica con l’aggiunta di due inediti, La tua canzone,
diventato un hit la scorsa estate, e Anima lieve. Una fotografia volutamente
virata in toni chiaro-scuri, che prende spunto dalla prima tranche di un tour
(la seconda è in corso) che ha visto la
band salire sui palchi dei teatri italiani per riproporre le loro canzoni
unplugged, ovvero con la spina (quasi) staccata. Da qui, l’idea di entrare in
studio per fissarle su disco, per poi ripartire in tour, ancora in corso. I
brani si sono così avvolti di nuovi colori, una scoperta per gli stessi Negrita,
abituati a dare elettricità e potenza al loro repertorio fin dall’esordio, nel 1994. Loro, d’altra
parte, sono tra le poche formazioni nostrane ad aver seguito i binari del rock,
ottenendo grossi riscontri di pubblico e di vendite. Una band, comunque, che
non ha mai dormito sugli allori, inserendo spesso nel proprio collaudato sound
elementi di novità, dal pop all’elettronica, dal reggae al latin, senza per questo
perdere di vista l’orientamento rockeggiante. È anche per questo, oltre all’ovvia qualità dei pezzi, che i Negrita hanno veleggiato
sicuri tra i marosi del panorama musicale italiano, prendendo rotte diverse
quando il viaggio lo richiedeva, lasciando che a guidarli fosse solo l’istinto,
senza fare troppi calcoli. È il caso di Déjà Vu: la band si avventura
verso un’altra direzione e si rimette in gioco. E vince a man bassa. Ecco cosa
ci hanno raccontato.
Come ha preso corpo questo progetto?
Pau: L’idea è maturata dopo la fine della prima parte del
tour acustico della scorsa primavera. Visti i risultati e la resa che avevano i
pezzi, abbiamo deciso di registrarli anche in studio. L’album è un ibrido, a metà strada tra una raccolta di successi e un live,
ma più appetibile.
Mac: Fornisce un’angolazione diversa del nostro repertorio.
Non avendo avuto l’urgenza di realizzare un cd di inediti, ci siamo potuti
dedicare ai vecchi pezzi arrangiandoli in modi diversi.
In quale modo avete vissuto la dimensione del teatro, visto che
siete abituati ai palasport?
Drigo: In teatro capisci davvero come la musica è più importante di tutto il resto. E infatti anche
qui il pubblico si alza, si avvicina al palco, balla e salta, perché sono le canzoni a dare la scossa alle persone,
anche con poca... elettricità negli strumenti.
Perché non avete registrato live i pezzi?
Drigo: Prima di tutto perché l’anno scorso avevamo pubblicato un album dal
vivo, quindi non ci sembrava il caso di ripeterci, anche se in vesta acustica.
E poi quando registri in concerto devi sempre scendere a qualche compromesso per
quanto riguarda i suoni. In un live d i m e n s i o n i n u o
v e · 8 - 2 0 1 3 22 musica elettrico, i compromessi
sono minori, mentre in questo caso c’erano problematiche tecniche maggiori per
cui il risultato finale sarebbe stato decisamente minore a livello sonoro.
La confezione del cd è avvolta dai colori tenui del bianconero.
Rispecchia gli “umori” delle canzoni?
Pau: Direi di sì. A livello cromatico, il bianconero ha un suo
fascino e in teatro, oltre che con il suono, giochi anche con le luci. Quando
ti esibisci in uno spazio grande, hai bisogno di centinaia di fari, mentre in
un luogo più piccolo basta poco per
creare un’atmosfera coinvolgente. Quindi, il chiaro-scuro è sicuramente una dominante sul concetto alla
base di questo lavoro, fotografa in pieno lo spirito dei concerti.
Cos’è oggi un concerto?
Mac: Per noi non è mai solo un momento in cui si suona musica, ma
un rituale dove c’è uno scambio forte di energia. E questo album lo dimostra ancora
una volta.
Drigo: L’intensità non cambia, che ci si trovi in un palasport o
in un teatro. In questo progetto, le canzoni non hanno perso un grammo della loro
forza e attualità, pur passando attraverso strumenti fatti solo di legno e metallo,
senza filtri elettronici.
Pau: Il nostro percorso dimostra che non ci siamo mai
adagiati sulle posizioni raggiunte. Prima di questa esperienza, arrivavamo da un
tour elettrico nei palasport e da un’avventura nei club con i Subsonica e altre
band in Canada. Ci piace, insomma, spaziare, perché di fronte a grandi platee possiamo alzare il volume
quanto vogliamo, e poi accarezzare una chitarra acustica in luoghi più raccolti. Sono belle entrambe le situazioni.
Nel cd si sgranano i brani che formano la vostra storia. Quali
sono i punti che ritenete più importanti?
Pau: Il disco di debutto, dai forti sapori
funkyblues; poi Reset, uscito alla fine dei ‘90,
in cui abbiamo inserito elementi di elettronica; infine, HELLdorado, del 2009, che mischia insieme tante influenza
sonore. È un buon percorso per avere
un’idea dei Negrita.
Mac: Non abbiamo mai avuto paura, lungo la nostra
carriera, di avventurarci su strade diverse, senza perdere di vista per questo l’essenza
del rock. Ogni album portava delle novità, talvolta più marcate, ma l’approccio è sempre stato sincero, naturale: non abbiamo mai
pensato in termini di obiettivi.
La tua canzone è stato un singolo di grosso successo. In quale
modo è nata?
Mac: L’idea di base è scaturita dalla vicenda di un amico che stava
per affrontare un passaggio importante della sua vita e aveva bisogno di un
incoraggiamento. Alla fine del brano, ci siamo però resi conto che il tema poteva avere una valenza
più generale. È un periodo, questo, in cui tanta gente non sta proprio
benissimo e molti tendono a crollare di fronte ai problemi gravi, cosa più che comprensibile.
Pau: Quando si affacciano situazioni pesanti, tutti
siamo deboli di fronte a certi ostacoli. Se a volte la musica può essere consolatoria o aiutare a mettere più benzina in corpo per superare le difficoltà, ben venga. Credo che una delle ragioni per cui
il pezzo ha avuto successo sia stato anche per questo. Abbiamo ricevuto una
marea di messaggi che ci dicevano: “Avete scritto il brano per me”.
Drigo: Capisci, allora, quanto bisogno d’incoraggiamento
ci sia nella gente, di una visione e di idee sul futuro, quello che non riesce a
dare la politica. C’è un vuoto preoccupante, non si vede quello che accadrà tra due settimane, figurarsi tra qualche anno.
Viviamo tutti alla giornata, ma non è così che si prepara il futuro dei nostri figli.
Riuscite a conciliare l’attività della band con la famiglia?
Pau: Non è facile, soprattutto quando nascono i figli. I rimorsi
della coscienza si fanno sentire. Cerchiamo di far incastrare il lavoro con la
vita delle famiglie, prendendoci delle pause tra un impegno e l’altro. Io, per
esempio, anche quando sono in vacanza non sto mai fermo: ad agosto ho viaggiato
per seimila km in camper con la moglie e la figlia che gentilmente mi hanno
assecondato.
Drigo: Il nostro è un mestiere un po’ particolare ed è chiaro che si prova a tenere un certo equilibrio
con il privato perché le famiglie sono importanti. Ma è altrettanto vero che un genitore realizzato nel
proprio lavoro può essere più educativo e meno frustrato.