Una vita nel segno dell’avventura

di Ferdinando Albertazzi Intervista allo scrittore Alberto Ongaro Una vita nel segno dell’avventura Sta per spegnere novanta candel...

di Ferdinando Albertazzi

Intervista allo scrittore Alberto Ongaro
Una vita nel segno dell’avventura
Sta per spegnere novanta candeline ma conserva la grinta e lo spirito di un grande esploratore. Veneziano doc, è una delle prime penne della narrativa italiana contemporanea.

Più che viaggiatore, Alberto Ongaro è stato piuttosto un esploratore di luoghi, di emozioni, di atmosfere, di eventi e soprattutto di persone, negli oltre trent’anni vissuti in Sudamerica prima e in Inghilterra poi, dopo il trasferimento in Argentina (1948) in compagnia dell’amico Hugo Pratt. L’artefice di Corto Maltese, personaggio ormai mitico che ha fatto la storia del fumetto, ha avuto un lungo sodalizio con Alberto Ongaro, con cui ha collaborato (affiancato da Dino Battaglia) sceneggiando a soli vent’anni Asso di Picche e Jungleman.
Tornato a Venezia nel 1979 ha firmato romanzi di forte spessore, con protagonisti che scintillano nella memoria del lettore. Narrazioni accolte con molto favore dalla critica e dal pubblico, tra cui spiccano La taverna del Doge Loredan, ritenuto il suo capolavoro e La partita, vincitore del Super Campiello nel 1986 e portato sul grande schermo due anni dopo, con un’interpretazione maiuscola di Faye Dunaway. 
Punta sull’intreccio limpidamente delineato della storia, sulla caratterizzazione minuziosa e documentata dei personaggi e, ovviamente, sulle molteplici valenze dell’avventura anche Athos, uno dei celeberrimi moschettieri di Dumas al centro dell’ultimo romanzo di Ongaro che sta appassionando in particolare i nuovi adulti, ai quali lo scrittore si indirizza nell’intervista rilasciata in esclusiva per Dimensioni Nuove.

I tre moschettieri è stata una lettura di riferimento, nella sua formazione?
Sì, lo è stata assieme a molti romanzi nei quali l’elemento romanzesco si coniughi senza sforzo, direi naturalmente, con il carattere letterario della scrittura.

Può esserlo anche per i giovani di oggi e, nel caso, per quali valenze?
Non vedo perché non dovrebbe esserlo. Al di là della trama avventurosa e della grazia della scrittura, nei Tre moschettieri Dumas ha creato un capolavoro raccontando la difficile arte dell’amicizia. Il meraviglioso sodalizio che unisce i tre moschettieri a D’Artagnan durerà eternamente e son convinto che affascini i giovani di tutte le epoche.

Quali libri continuano ad accompagnarla, quali personaggi in pagina?
Sono troppi per elencarli tutti… Dirò dei più importanti: Pinocchio, Vittoria di Conrad e il suo protagonista, il barone svedese Heyst. Poi I Demoni di Dostojevski e il protagonista Stavroghin, Lord Jim di Conrad, Sotto il vulcano di Malcom Lowry con il protagonista Geoffrey Firmin.

Hanno contribuito a fare della scrittura una tentazione irrinunciabile, per lei?
Certo, ma la folgorazione l’ho avuta nel dopoguerra con la lettura dei Quaderni di Malte di Rainer Maria Rilke: di colpo la realtà ha mostrato delle fessure attraverso le quali si avvertono dimensioni misteriose e consiglierei questo libro a ogni ragazzo che dal liceo va all’università.

Cos’altro è stato decisivo?
Il successo del mio primo libro, Il complice, pubblicato anche in Inghilterra, Stati Uniti e Spagna. Ovviamente se il primo libro va bene ci si sente incoraggiati a continuare...

Adesso, però, i suoi moschettieri sono… Athos: un ritorno di fiamma o un’affinità elettiva?
Sono sempre stato affascinato dai personaggi immaginari e in particolare da Athos: conduce tutta la sua vita in silenzio, ha un solo amore, è freddo come un lupo e altrettanto feroce quando si sente offeso. Un libro su Athos ho sempre desiderato farlo, non so bene perché. Per varie ragioni l’ho sempre rinviato, ma è arrivato il suo momento.

Quali, le caratteristiche di Athos che possono stregare un giovane?
Il coraggio, l’onestà, il rigore verso se stesso e gli altri, l’assoluta fedeltà verso l’amicizia.

A cosa può invogliarlo, la vicenda?
Potrebbe invogliarlo a imparare a scrivere delle storie!
D’altronde questa storia è costruita su tre linee portanti: la lettera di Oswald, il nome dell’uomo di grandissimo valore, la misteriosa data del 21 agosto. Quindi è una lezione strutturale di cui tener conto…

“Attraverso” Athos, il tempo potrebbe diventare “quel luogo dove qualcuno aspetta qualcun altro che sta sorprendentemente per arrivare”, per il lettore pronto a cogliere il testimone dell’avventura?
Il “peso” del tempo lo si sente soltanto quando si è passivi mentre quando si agisce, quando si è proiettati verso qualcosa o verso qualcuno, il tempo per così dire si spezza e non se ne sente il peso. L’arrivo di qualcuno, per di più, può diventare un’avventura comune tanto inattesa quanto sorprendente.

Ci sono figure che ancora “ritornano”, dai suoi tanti anni trascorsi viaggiando?
Il primo è di sicuro Bimbo, un ex detenuto del penitenziario della Cajenna. Il soprannome gli derivava dalla statura molto bassa, ma era stato il capo di una banda di ladri mandato alla Cajenna per omicidio. Però non aveva ucciso l’uomo che voleva uccidere, aveva sbagliato bersaglio... Comunque era molto simpatico e fumava due sigarette alla volta!

Un bel personaggio...
Come Happy Joseph, re della grande tribù africana dei Bamilikè (Camerun): ha dato a me e a Gianfranco Moroldo, il fotografo con il quale viaggiavo, un titolo nobiliare perché la storia dell’Africa la facevamo raccontare non dai bianchi ma dagli stessi africani.

Una motivazione più che condivisibile…
Sicuro. Inoltre Tupou IV, il re dell’arcipelago delle isole Tonga: alto due metri e dieci, che per fare ginnastica andava su e giù per le scale della sua reggia (di legno) con duecento chili distribuiti tra braccia e gambe. Voleva l’unificazione di gran parte della Polinesia sotto il suo governo, ma l’operazione non gli è riuscita.

Altra figura pittoresca!
Naturalmente ci sono stati incontri meno pittoreschi, ma intellettualmente affascinanti. Ne cito due: i grandi scrittori Vladimir Nabokov e George Simenon. Di entrambi menziono solo due annotazioni curiose: Simenon teneva davanti alla porta di casa, come un totem, la statuetta di Maigret, mentre Nabokov, appassionato entomologo, sosteneva che avrebbe rinunciato a tutti i suoi libri pur di possedere un tipo di farfalla rarissimo di cui non ricordo il nome.

Ci sono anche dei “luoghi della memoria”, magari inventati?
Venezia c’è in ogni mio libro e non solo per memoria. E del resto, no: non ho mai inventato città, quelle di cui ho raccontato le ho conosciute veramente.

Nella sua storia si ipotizza che una persona abbia potuto uccidersi “per l’umiliazione, per l’impossibilità di vivere in quel modo”. Un gesto estremo di dignità e orgoglio che potrebbe diventare una “pulce nell’orecchio”, nell’appiattimento di valori odierno?
Non metterei una simile pulce nell’orecchio di nessuno, né adulto né ragazzo. Preferisco che le persone si adattino in ogni circostanza, piuttosto che pensare a gesti estremi.

 Nel mio romanzo il suicidio di Lindo de la Fonte è soltanto ipotizzato e per ciò che mi riguarda è stato invece ucciso dal suo servo. <

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