Alla ricerca del giorno perfetto

Di Ferdinando Albertazzi A tu per tu con Jennifer Niven Alla ricerca del giorno perfetto Il drammatico e delicato tema del su...


Di Ferdinando Albertazzi
A tu per tu con Jennifer Niven



Alla ricerca

del giorno perfetto

Il drammatico e delicato tema del suicidio viene affrontato

con sensibilità nel romanzo della scrittrice americana.



Ha un sorriso accogliente, Jennifer Niven, un sorriso che ti racconta la sua disponibilità schietta. Un sorriso che però incornicia uno sguardo inquieto, occhi di cerbiatta che nell’infanzia hanno avuto un incontro ravvicinato con un predatore. Quel momento è rimasto impresso e rimane lì con la sua onda lunga e inossidabile ad avvolgere qualsivoglia evento successivo.

Il predatore di Jennifer è appunto di quelli che lasciano un segno indelebile e che costringono a un’esistenza con il cuore pesante; a cancellarlo non basta una narrazione, benché Niven abbia passato una sorta di testimone del suo predatore ai protagonisti di Raccontami di un giorno perfetto che difatti si cuciono addosso, di giorno in giorno, una vita con vista sul suicidio. Jennifer ce ne parla in esclusiva per Dimensioni Nuove.

Niven, un cognome con penna incorporata...

È un’immagine appropriata, dato che oltre ad essere un’insegnante d’inglese mia madre era una scrittrice apprezzata. Mio padre, invece, era un lettore appassionato, un uomo di vasta e coltivata cultura. Perciò sono cresciuta in una casa avvolta nei libri: cresciuta a pane e libri, potrei dire!



Così ha conosciuto presto il potere delle parole...

Mia madre mi ha sempre parlato del potere delle parole. Come ho detto era una scrittrice, ma ciò che conta è che fosse soprattutto un essere umano meraviglioso. Difatti non si stancava di ripetermi: «Se il tuo obiettivo non è quello di finire in prima pagina su un quotidiano ma ti preme ciò che può succedere nella mente e nel cuore di chi ti legge, allora sii sempre attenta a come usi le parole, sceglile con molta attenzione e scrivi con estrema cura».

È per questo che lei definisce “proiettili” le parole?

Sono innamorata delle parole e so che si possono usare in modo che siano davvero benefiche. Troppo spesso, però, vengono impiegate come armi peraltro rozze, crudeli e cattive. Finch, il ragazzo protagonista del mio romanzo, lo dimostra molto bene quando scrive, su un foglietto che poi distruggerà, parole quali bullismo, mentre attacca addirittura alle pareti le parole che lo rendono felice.



Tornando ai libri in casa: ce n’erano anche di Cesare Pavese e di Natalia Ginzburg, che lei cita nel suo romanzo?

Pavese in effetti lo conoscevo, invece altre citazioni le ho trovate su un libro che mi è stato regalato dal mio migliore amico prima che iniziassi a scrivere Raccontami di un giorno perfetto. È uno dei miei libri più cari e si tratta di un’antologia di lettere di addio, scritte da autori morti suicidi. Rispetto a Cesare Pavese in particolare, del quale conoscevo appunto le opere ma non la vita, mi sono resa conto che più approfondivo, leggendo, più diventavano evidenti i collegamenti con il personaggio di Finch.



Si tratta in ogni modo di una conoscenza piuttosto insolita, per un’autrice statunitense...

In effetti mia madre, un vero e proprio faro per me, nutriva una curiosità particolare per certi autori, non di madrelingua inglese bensì semplicemente tradotti, quali Cesare Pavese e Natalia Ginzburg. È una delle tantissime cose che le devo.



Lei ha avuto un rapporto solido e fertile con i genitori, eppure continua a dire di sentirsi “una sopravvissuta al suicidio”: in che senso?

Fin dall’infanzia, ho convissuto e continuo a convivere con la mancanza/presenza di persone che si sono uccise. Non puoi dimenticare bensì, appunto, conviverci e dunque sopravvivere. Però oggi riesco a parlarne, cosa che non ho mai fatto prima. In più, questa conclusione lacerante della vita di un amico sta aiutando tanti ragazzi che, in varia misura, si sentono come lui.



Ne incontra spesso?

Molti di persona, in Inghilterra e negli Stati Uniti ma anche in Italia, nelle diverse scuole in cui ho presentato il romanzo, senza contare i tantissimi ragazzi “incontrati” on line. Parecchi di loro mi hanno detto di sentirsi sicuri, a proprio agio a parlare delle tematiche forti del libro, della sofferenza che attanaglia i protagonisti. In alcuni casi si tratta di persone particolarmente depresse o con tendenza al suicidio, in altri casi di ragazzi che hanno subito un lutto. È proprio gratificante, venire ringraziata da loro!



Finch, il protagonista maschile della sua storia, è affetto da “sindrome bipolare”. Ma non lo sono forse troppi ragazzi, oggi, divisi tra una vita reale e una vita virtuale in cui peraltro si riconoscono magari ancora di più?

Sì, credo che oggi un ragazzo si senta quasi fatalmente in qualche modo “bipolare”. Ai nostri ragazzi sembra di avere una comunità di amici che però in realtà non conoscono, quindi si credono circondati da presenze mentre sono in realtà più isolati dei ragazzi di generazioni precedenti. Si tratta di un fenomeno paradossale e molto interessante: le esperienze e le emozioni, e perfino i sentimenti vengono provati con una sorta di amplificazione, in rete; appaiono molto più grandi, molto più oscuri, comunque più estremi di quanto in realtà non siano e in questo senso ci si avvicina ai picchi alti e bassi del bipolarismo.



Emergono altre condizioni da allarme rosso, durante gli incontri?

Spesso salta fuori che si sentono etichettati e ne percepiscono la pericolosità, in particolare se poi applichiamo a noi stessi delle definizioni rigide. A forza di sentirle ripetere, per esempio dai genitori. Io sono stata invece molto fortunata, con genitori che mi dicevano: «Tu, Jennifer, non hai limiti, l’universo stesso non ha limiti e tu non sarai mai definibile attraverso una sola parola». Sono decisivi, i genitori…



Ma anche leggere certe storie come Raccontami di un giorno perfetto può rivelarsi di un’importanza decisiva...

Be’, lo spero sinceramente e in ogni modo credo sia vero che attraverso la scrittura si possano fare risaltare differenze significative. Mia madre usava una metafora velistica: abitavamo nel Maryland e i miei genitori amavano andare in barca a vela, così lei mi parlava della “scia che ci si lascia dietro” e della responsabilità che questo comporta.

L’attenzione e la consapevolezza devono essere sempre attive: che l’interazione con gli altri sia piccola o grande, è importantissimo essere consci del proprio impatto, che in definitiva diventa il contributo che ciascuno di noi offre al divenire del mondo. <

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