Nepal - Piccoli passi tra le macerie

attualità di Elisa Murgese Nepal un anno dopo Piccoli passi tra le macerie Si sono spenti velocemente i riflettori puntati sul t...

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di Elisa Murgese

Nepal un anno dopo

Piccoli passi tra le macerie


Si sono spenti velocemente i riflettori puntati sul terribile terremoto che ha devastato il tetto del mondo un anno fa.
Ma la situazione resta molto difficile.
Solo piccole iniziative tengono viva la speranza.


   I secondi diventano ore. Una folla di persone nel panico. Scosse che continuano per più di un’ora. Quando il Nepal è stato colpito dal terremoto più violento degli ultimi ottant’anni, Jessica Tradati, giornalista freelance per il Kathmandu Post, si trovava in camera sua nel centrale quartiere di Tamel, nella capitale. È passato quasi un anno da quel 25 aprile 2015 quando il “tetto del mondo” è stato sconvolto da una doppia scossa di magnitudo 7,8.
Distrutte 500mila case – secondo un report del ministero degli affari interni nepalese – e coinvolte quasi 3 milioni di persone, per un bilancio di 9mila morti.
    Tradotto in cifre, il terremoto ha causato circa 7 miliardi di dollari di danni, ovvero un terzo del prodotto interno lordo del Paese.
«Sono passati diversi mesi da quel terribile momento, ma ancora non vedo grandi miglioramenti in Nepal – dice la 26enne di Milano –.  Ad autunno, mentre sono stata lì, io stessa facevo fatica a vivere. Incontravo difficoltà in tutte le operazioni più semplici: lavorare, spostarmi, cucinare, perfino fare la spesa». Questo perché il Nepal, accanto alle problematiche di ricostruzione, sta vivendo una sorta di embargo di cui poco si parla sulle pagine dei giornali europei dove tanto spazio, invece, avevano trovato i volti dei reduci e i palazzi sventrati.

Manca ancora tutto
La crisi nepalese è iniziata a fine settembre, quando il Paese si è dichiarato uno Stato federale, siglando la sua nuova Costituzione. «Ma il gruppo etnico di confine dei Madhesi – spiega la giornalista milanese – non vedendosi rappresentato nel nuovo governo, ha iniziato una serie di proteste bloccando la frontiera con l’India per chiedere ai politici di prendere in mano i loro emendamenti». È stata questa rivendicazione di indipendenza da parte del gruppo etnico al confine con l’India e in buona parte di origine indiana, a dare inizio – grazie al tacito supporto di Nuova Delhi – a un’escalation di violenza: oltre cinquanta morti, e chiuse al pubblico due delle principali mete turistiche del Paese, il parco nazionale di Chitwan e Lumbini, città natale di Buddha.
    Ma checkpoint bloccati significa anche che petrolio e gas indiani, da cui il Nepal è estremamente dipendente, iniziano a scarseggiare nelle case del piccolo Stato himalayano. «Anche le medicine hanno difficoltà a essere importate», continua Jessica Tradati. Tanto che dallo scorso dicembre un allarme lanciato dall’Unicef sottolineava come, nei mesi invernali, oltre tre milioni di giovani nepalesi hanno rischiato la morte o malattie gravi proprio per la mancanza di gas, cibo, vaccini e medicinali. E mentre i minori temono di non arrivare all’estate, i ristoranti chiudono, i prezzi della benzina sono alle stelle e il gas per cucinare è reperibile solo al mercato nero.
 
  «La carenza di carburante ha reso impossibili le comunicazioni e i trasporti, già particolarmente difficoltosi in Nepal, e ha creato gravi disagi nelle case per cucinare e riscaldarsi – continua la giovane reporter – . A Kathmandu io stessa non avevo modo di cucinare né di farmi una doccia calda». Inoltre, a causa della sorta di embargo indiano, «il prezzo di qualunque merce è aumentato e sia i ristoranti che i posti turistici hanno ridotto i loro menu». Una situazione che non ha potuto che peggiorare il panorama di una terra ancora intenta a leccarsi le ferite di un terremoto da oltre 9mila vittime. Mentre i turisti, che erano già in calo, non hanno avuto un grande incentivo a riconsiderare la propria scelta di vacanza. Un ritorno alla normalità che procede con non poche difficoltà, visto che solo lo scorso dicembre il parlamento nepalese ha approvato una legge per la ricostruzione. Ancora inutilizzati, infatti, i 4,4 miliardi di dollari assicurati da diverse nazioni, prima fra tutte la potenza cinese.

Da una pagina Facebook all’azione
Eppure qualche passo in avanti si sta facendo negli ostili territori nepalesi. E alcune di queste impronte, sono proprio quelle impresse da Nepal Needs Help, iniziativa creata dalla giovane milanese nei giorni successivi al terremoto. In meno di un anno, con una semplice pagina Facebook, la 26enne ha saputo raccogliere oltre 30mila euro da dedicare alla ricostruzione del “tetto del mondo”. «Il lavoro più grosso è stata la costruzione di una struttura in cemento per la scuola crollata di Jiri, Dolakha (a est di Kathmandu, ndr), uno dei distretti più colpiti. In quella scuola siamo riusciti a portare a termine un edificio che potesse essere tanto una biblioteca quando una stanza per i professori. Poi, abbiamo costruito un centinaio di rifugi per famiglie a Lalitpur, ai piedi della capitale, e tre ricoveri temporanei per scuole in altre due aree del Nepal». Risultati importanti, raggiunti grazie alle donazioni di quanti hanno deciso di credere nel progetto di Jessica («per trasformare le parole in azione», scriveva pochi giorni dopo la tragedia Jessica sulla pagina Facebook dell’iniziativa), e non di una delle migliaia di Ong che il Paese si stava preparando a ospitare nei mesi post-sisma.

La speranza dal turismoE come quella di Jessica, sono diverse le iniziative spontanee che stanno cercando di fare rinascere un Nepal in ginocchio. Non soltanto per dare conforto alla popolazione, ma anche per ripristinare il settore turistico, linfa vitale per un’industria che vale 1,6 miliardi di dollari e impiega circa mezzo milione di persone. Tra gli obiettivi, quello di riaprire al pubblico alcuni tra i sentieri più belli al mondo, alle pendici nevose dell’Himalaya – la casa di Dio – secondo le tradizioni nepalesi. D’altronde, quando è stata colpita dalla prima scossa di terremoto del 25 aprile 2015, Jessica Tradati stava preparando uno zaino per un’escursione di due giorni. Quel trekking, poi, non è più stato possibile farlo. Ma la giovane milanese spera di tornare presto a essere accolta tra quelle montagne. <

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