Un'ora-torio di libertà

persone di Leo Gangi Incontro con don Domenico Ricca Un’ora-torio di libertà È un giovane prete quello che entr...


persone

di Leo Gangi



Incontro con don Domenico Ricca

Un’ora-torio di libertà

È un giovane prete quello che entra come cappellano

nel 1979 nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino.

Da allora, non ha più smesso di seguire i ragazzi in difficoltà.



«Ero sul treno Torino-Mestre e dovevo cambiare a Milano. Nella prima tratta mi accorgo di un giovanotto che mi fissa dal fondo della carrozza: è vestito da capotreno con una divisa di lusso. Io lo guardo ma non mi sovviene nulla.

Ci fermiamo, si scende dal treno, a Milano si cambia; passando dal binario 10 al 14 ritrovo questo ragazzo dietro di me […] mi viene incontro... e mi dice: “Ma tu non sei Mecô?”. Dico: “Sì, allora tu chi sei?”. “Io sono Edoardo (il nome è di fantasia, ovviamente), sono stato al Ferrante Aporti negli anni tali e tali, è da un po’ che ti guardavo. Dico: “Ma come mai sei così ben vestito?[…]”. “Perché faccio il capotreno della linea Milano-Parigi”. Penso: ma questo qui ci ha dato tanto filo da torcere...».

Edoardo era un ragazzo difficile, finito al Carcere Minorile per qualche sbaglio di troppo. Poi è riuscito a riabilitarsi completamente. La sua storia è riportata in Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti, libro-intervista di Marina Lomunno a don Domenico Ricca, salesiano, da 35 anni cappellano del Minorile di Torino, dove sono destinate temporaneamente persone con meno di 18 anni condannate o in attesa di giudizio per un periodo determinato.

Torniamo a Edoardo. «È successo che ha azzeccato l’amore, tanto per dirne una, ha incontrato una ragazza bravissima, c’è stato un feeling e, vai a sapere, è servito a raddrizzarlo – ipotizza don Mecô, come lo chiamano tutti  –. E adesso era lì nel mio stesso treno con un mestiere, orgoglioso di se stesso, orgoglioso anche di presentarsi, di farsi riconoscere, di raccontarmi. Forse anche un modo implicito per farci sapere e per rassicurarci che con lui non avevamo sbagliato tutto...».

Non tutti sono così fortunati. Altri ragazzi ci ricascano, altri ancora faticano a trovare una direzione. Tutti sono nel cuore e negli occhi di don Mecô. Lo abbiamo intervistato, per conoscerli un po’ meglio.



Com’è stato il tuo primo giorno nel carcere?

Era il 1979. Ero un giovane prete. Mi hanno chiesto se mi andasse di assumere questo incarico. Ho risposto: «Sono qua». Ma nel settore non avevo nessuna esperienza. Così, una volta arrivato al Ferrante Aporti ho pensato: «E adesso cosa faccio? Sono capace di fare oratorio: accoglienza, relazione, ascolto, con un atteggiamento non inquisitorio e non giudicante». Nel frattempo sono venute fuori delle proposte in cui ci siamo buttati a capofitto.



don Domenico Ricca
con l'ex magistrato antimafia Giancarlo Caselli
Per esempio?

I percorsi di avviamento al lavoro esterno. Li portavo in auto e anche in Vespa, e li aspettavo per rientrare insieme. E poi, le uscite ai punti verdi di Torino. Ma anche l’accompagnamento scolastico con i volontari dell’oratorio Agnelli qui vicino. E poi lo sport. Per fare bene bisogna amare le cose dei ragazzi, come insegna don Bosco. 



Sei mai andato incontro a una sconfitta?

Sì, spesso. Una volta volevo fare un cineforum. In oratorio funziona, favorisce l’aggregazione. Ma lì non ha aderito praticamente nessuno. Ho capito che le cose non andavano imposte ma condivise.



Parli a loro di Dio?

Sul fronte religioso all’inizio ero attendista. Il mio compito è soprattutto ascoltarli. Mi sono concentrato su pochi momenti forti, spezzando l’eucarestia dove capitava e restando a vedere. Torino allora era molto laica. Non ho spinto l’acceleratore e la storia mi ha dato ragione.

Oggi viviamo in una società multietnica, il carcere ne è uno specchio: Dio non è una nozione da inculcare, è una voce che senti dentro. Nei ragazzi con storie pesanti la vita è una questione importante. Col tempo, in tanti mi hanno chiesto con insistenza di celebrare più spesso, ogni 15 giorni, in un locale adeguato. Non è richiesto però un “certificato spirituale”: ognuno si avvicina a Dio con la sua storia e il suo linguaggio. Il Signore accoglie tutti i suoi figli.



Cos’è cambiato oggi nei ragazzi rispetto a quando hai iniziato questa avventura?

Allora c’erano 80-85 ragazzi che rappresentavano i quartieri più malfamati della città. Oggi il mondo giovanile è cambiato: i ragazzi sono più “liquidi”, più fragili, più buoni ma anche più esposti a sollecitazioni varie e continue.

Sono lasciati molto soli. Desiderano affetto, chiedono attenzione, qualcuno che si accorga di loro. Non sono ragazzi separati dal mondo. Sono i nostri ragazzi. I luoghi di aggregazione oggi o sono “enclave” o sono “praterie”, delle piazze immense, senza limiti ma anonime, col rischio di perdersi.

In questo quadro, il cortile dell’oratorio può regalare ancora molto. Dà dei limiti che però aiutano a crescere: dei “sì” e dei “no”, il senso del possibile e della vicinanza. Si fa riconoscere perché ha un nome. Così è per il Ferrante Aporti: è paradossale che i ragazzi a volte abbiano paura di uscire.



Una volta usciti, riescono a riabilitarsi?

Alcuni ce la fanno, altri no. Che ce la facciano solo per merito nostro, no. Concorrono molte circostanze: la Provvidenza, un amore bello, un lavoro. Certamente ci mettono del loro, sempre. La loro salvezza è che sono adolescenti. Dove non arriviamo noi, arrivano loro.

Ma c’è anche un altro lato della medaglia: sono tanto idealisti. Manca loro l’aderenza alla realtà. Un bel problema, perché per riabilitarsi bisogna seguire un percorso a ostacoli. Non si può sempre sfidare il mondo. Bisogna camminare lungo la via della riconciliazione: con la propria famiglia, con le vittime, con il territorio.



Don Domenico Ricca con Marina Lomunno
Ti sei mai sentito dire da un ragazzo: sono convinto di ciò che ho fatto?

Qualche caso di “detenuto perfetto” (nel senso di “fatto e finito”) c’è, ma nel tempo sono sempre meno. I ragazzi sono intelligenti e cominciano a capire che, come si dice, il crimine non paga. Mi sono sentito dire spesso: «Mi sto accorgendo che sto passando l’età più bella della mia vita in carcere» e «i soldi rubati si fumano in fretta».

L’aspetto fondamentale nel dialogo con loro è capire il contesto in cui ci si trova. Non tutte le storie sono uguali, anzi. Ogni storia è diversa ed è legata al panorama culturale del territorio in cui nasce: Nord, Sud, centro città o periferia. Come accade nella vita quotidiana, quella che sta fuori da quelle sbarre. Quella che i ragazzi hanno perso e che nel cortile dietro le sbarre si accorgono di volere riconquistare. <

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