Big data: il futuro è nella rete

attualità di Leo Gangi Il Grande Fratello è sempre più tra noi Big Data: il futuro è nella rete L’enorme quantità di dati e informa...

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di Leo Gangi


Il Grande Fratello è sempre più tra noi

Big Data:il futuro è nella rete

L’enorme quantità di dati e informazioni che passano dal web sono ormai gestiti da potenti programmi. Un bene o un male?


     Una volta predire il futuro era roba da maghe e stregoni. Ora non è più così. Ci pensano gli esperti di statistica e gli algoritmi più potenti a dirci cosa succederà. Il segreto si chiama “big data”. È l’enorme quantità di informazioni che ogni giorno, sempre di più, attraversa il world wide web e che alcuni programmi hanno imparato a gestire: anagrafica, indirizzo di casa, numero del telefonino, fotografie, opinioni, voce e probabilmente anche le impronte digitali.
   Del resto è facilissimo rendersi conto che le situazioni in cui immettiamo dati in rete sono sterminate: mentre usiamo i social, ad esempio, attraverso i post e le immagini che condividiamo con gli amici. 
    Quando navighiamo su Internet le nostre preferenze vengono registrate e sommate a quelle di molti altri per dare al “cervellone” di turno le basi su cui impostare le tendenze di massa. Se decidiamo di acquistare online, anche quelle informazioni vengono registrate ed elaborate per valutare non solo i nostri gusti ma quelli dei nostri coetanei nelle varie parti del mondo. 
   La mole di notizie personali fornita in questo modo ai mega server che gestiscono la rete (Google in pole position, ma non solo) cresce in maniera esponenziale. Non è difficile crederlo: il mondo è oramai connesso ovunque 24 ore su 24 tramite telefonini, computer e tablet, a cui si aggiungono satelliti, televisori smart, orologi interattivi, telecamere, bancomat, sistemi wi-fi a casa e in città, diventati compagni inseparabili della nostra vita quotidiana.
   E poi si devono aggiungere anche dati di contesto: geografici, meteorologici, di cronaca… il numero è talmente grande che l’ordine di misura dei Gigabite è diventato insufficiente. Per contarla si usa generalmente l’unità di grandezza Zettabyte (ZB, vale circa un triliardo di byte).

A cosa serve?
   A cosa servono tutte queste notizie? Non certo a scrivere un libro, e nemmeno a curiosare nella nostra vita privata, come suggerirebbe un buon film di spionaggio. In realtà i dati prodotti vengono suddivisi per categorie e per provenienza, il più delle volte per fini commerciali. Con questo sistema è infatti molto più facile personalizzare le campagne pubblicitarie, che riescono a interessare un pubblico più vasto di quello che attirerebbero gli spot tradizionali.
   Se per esempio cerchi su Google un nuovo orologio colorato, al nuovo accesso potrebbero comparirti pubblicità di orologi simili, su Facebook potresti ricevere avvisi in tema e così via. Capiamoci: la strategia mirata può piacere di più anche al potenziale cliente, che così non deve faticare troppo nella ricerca.
   Con queste conoscenze a disposizione però un imprenditore può anche cercare di convincere il Google-utente di turno a spendere di più o ad acquistare qualcosa che prima pensavamo non ci servisse. In gergo si chiama “bisogno indotto”. È un potere enorme, che si sta affinando sempre di più.

Non solo e-commerce
   Ma questa è solo una delle sconfinate possibilità di utilizzo dei big data. Gli avveniristici metodi di analisi delle informazioni da parte di esperti umani e macchine permettono di fare cose strabilianti, anche in criminologia. Ad esempio, scandagliando i furti avvenuti in un dato periodo in una certa zona, è possibile azzardare previsioni sui prossimi “colpi”. Non proprio come nel film Minority Report, ma la strada è tracciata.
Diversi servizi giornalistici parlano di società specializzate che svolgono un’attività del genere per l’intelligence di vari Paesi, naturalmente USA in prima fila. Con un rischio: passare dalla predizione al pregiudizio e convincersi che in una zona malfamata tutti siano delinquenti. Cioè, fare di tutta l’erba un fascio, dimenticando che la realtà è molto più complicata.
   È più facile per Facebook suggerirci con chi fare amicizia, di quali prodotti abbiamo bisogno e quali notizie è meglio leggere. Il “lavoro sporco” è già affidato in parte ai programmi informatici. Si tratta di un ruolo destinato ad ampliarsi con lo sviluppo del cognitive computing: processi di analisi e predizione che si perfezionano in automatico, cammin facendo, interagendo con gli utenti come farebbe un essere umano. Le prime versioni sono già attive, si chiamano “bot” e sono dei robot virtuali.

Open data
   Non dobbiamo spaventarci. Non c’è nessun potere occulto che complotta contro di noi per rubarci l’identità. La maggior parte delle informazioni che forniamo alla rete sono infatti open data, cioè a disposizione di tutti. Ovvio, di tutti coloro che sanno aggregarli e combinarli in modo razionale.
   L’accessibilità e la trasparenza sono principi di democrazia. A questi si ispirano anche le pubbliche amministrazioni (ministeri, enti locali, tribunali, università, per citarne alcuni) che mettono “in chiaro” delibere, progetti, bilanci, servizi, per consentire la più vasta fruibilità possibile, nei limiti della privacy. Non scordiamo le informazioni sui trasporti pubblici, sul traffico, su quasi qualunque cosa ci venga in mente. Oggi abbiamo una possibilità di ottenere informazioni molto più grande che in qualunque altra epoca della storia. Ed è tutto a portata di clic.

La reazione dell’Europa
   È un bene che va difeso. Se le multinazionali con le pupille a forma di dollaro sono avide di informazioni da “processare” per vendere di più e meglio, i governi corrono ai ripari e oltre a regolamentare l’uso degli open data (in modo un po’ timido, ma è pur sempre un inizio) mettono paletti a chi vorrebbe strafare.
   La Germania ha già imposto a Zuckerberg di revocare il passaggio automatico a Facebook delle rubriche telefoniche degli utenti di WhatsApp. Intanto, l’Europa ha preparato un nuovo regolamento sul rispetto dei dati personali per costringere le società online a rendere i propri utenti coscienti di ciò che stanno per condividere, e per ridurre il trasloco delle banche dati dal Vecchio continente all’America, così da controllare meglio il traffico di informazioni, ad oggi un vero e proprio far west.
   Basterà? La rivoluzione dei big data non si può e non si deve fermare. Come tutte le novità, va compresa e usata al meglio. L’importante è non farsi travolgere ma diventarne fruitori consapevoli e responsabili. Cioè, protagonisti. <

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