Generazione 18
DOSSIER di Leo Gangi GENERAZIONE 18 Cosa vuol dire diventare maggiorenni nell’era digitale. QUESTIONI ...
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DOSSIER
di Leo Gangi
GENERAZIONE
18
Cosa vuol dire diventare maggiorenni nell’era digitale.
QUESTIONI DI
GENERAZIONE
Non abbiamo vissuto la
guerra, e nemmeno gli anni del boom economico. Non abbiamo visto cadere il muro
di Berlino e neanche le battaglie per
l’articolo 18. Cos’è l’articolo 18? Il crollo delle torri gemelle a New
York ce l’hanno raccontato: c’eravamo, ma eravamo troppo piccoli per
ricordarcelo.
Qualcuno ci chiama Generazione Z, qualcun altro iGeneration,
e in tanti altri modi ancora. Noi non crediamo che un’etichetta basti a
capirci. Ma se proprio volete “incasellarci”, chiamateci diciottenni, con le nostre paure e qualche speranza, quella che le
generazioni precedenti non ci hanno ancora tolto.
Il nuovo
mondo
Potrebbe iniziare così il “manifesto” di chi
quest’anno diventa maggiorenne in un mondo completamente diverso da quello che
hanno conosciuto i suoi genitori, e forse anche i fratelli più grandi. Una
società sempre in evoluzione e proprio per questo segnata da precariato e rottura dei riferimenti
che hanno guidato chi c’era prima. Ma contraddistinta anche dalla rivoluzione
digitale 2.0, che ha portato iPhone, smart city, realtà aumentata e una nuova
dimensione da scoprire e inventare.
Ci sono state altre epoche di grandi eventi: la scoperta
dell’America, l’invenzione della stampa, lo sbarco sulla Luna. Ma mai con così tante novità tutte assieme. Ecco le
principali, viste con gli occhi dei protagonisti. Il “manifesto” della
Generazione18 continua.
Dopo le
Torri Gemelle
L’11 settembre 2001 è la prima data da ricordare: le Torri Gemelle di New York crollano,
colpite da due aerei dirottati e usati come missili “impropri”, provocando
quasi tremila morti.
L’America, che da qualche anno si dedica ai film
apocalittici in stile Indipendence day,
dove ogni volta Manhattan viene rasa al suolo, ma solo per finta, resta sotto shock. La rovina delle Twin
Towers sconvolge l’Occidente. Per un attimo, ma solo per un attimo, si teme
l’inizio di una terza guerra mondiale.
Non succederà, ma da quel giorno nasce un nuovo modo
di concepire il terrorismo internazionale, e anche la risposta è nuova. La
paura si trasforma in rabbia e
diffidenza, cresce il dubbio che il pericolo si possa annidare ovunque. Oltre
ad avviare una guerra in Afghanistan, le Nazioni limitano fortemente la libertà
di movimento, ordinando controlli accurati negli aeroporti e vietando anche
certi generi di bagagli.
Noi quel senso di smarrimento e di rancore non
l’abbiamo provato: quando è successo eravamo nella culla. Sappiamo però com’è
andata a finire: a un nemico (Al Qaeda) se n’è aggiunto un altro (ISIS). Sembra
di essere calati in un thriller interminabile. Nessun luogo è abbastanza
sicuro. Ma noi nati nel nuovo millennio abbiamo imparato a cavarcela e farci
scivolare di dosso tutta questa strategia
del terrore, come Ermal Meta e Fabrizio Moro che cantano a Sanremo Non mi avete fatto niente.
Alla ricerca
di un posto migliore
La povertà, le guerre, un clima sempre più ostile sono
un altro segno distintivo del nostro tempo. Non che non ci siano mai stati
“viaggi della speranza” o cataclismi. Ma adesso capitano con una frequenza spaventosa. Altro che Legge
di Murphy!
Le battaglie e le disgrazie fanno scappare la gente,
anche da un continente all’altro, alla disperata ricerca di un posto migliore dove stare e
costruirsi una vita. Chi ci prova è disposto a tutto per uscire dalla propria
condizione.
In migliaia al giorno, soprattutto africani e
mediorientali, oltrepassano città, savana, deserto e mare: molti muoiono nel
cammino o affogano prima di toccare terra. Tra di loro ci sono anche tanti
diciottenni. Chi ce la fa non può sentirsi “arrivato”, perché si trova solo in una terra straniera e il suo
viaggio è appena all’inizio.
Evviva
Internet
Un altro genere di
viaggio lo offre Internet. In Italia c’è già da una trentina d’anni. Il touch screen, però, no; quando siamo
nati doveva ancora arrivare. Così, siamo stati tra i primi a giocarci, a
scoprirlo. Per noi è una cosa normale, come le nuove tecnologie: la LIM a
scuola, la stampante in 3D. L’informatica
ci affascina, maschi e femmine, fa ormai parte di noi. Come ha potuto la
storia farne a meno fino a ieri?
Ci sentiamo
global
Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione ha portato
alla costituzione di una community
virtuale che abbraccia i cinque continenti. Se i confini geografici tra gli
Stati sono (più o meno) definiti, non è così per la grande rete social:
Instagram, Twitter, Facebook, Snapchat e tutti gli altri.
Dietro lo schermo i nomi degli Stati di provenienza sono
solo nomi e tra noi non ci sono
differenze, se non la lingua. Ma con il traduttore di Google anche
quell’ostacolo è superabile: conoscere persone al di là del globo e avere
notizie in tempo reale dei posti dove vivono è uno scherzo da ragazzi, oltre
che molto stimolante.
Dalla società
liquida a quella gassosa
Per contro, si perdono i riferimenti: è come navigare
in mare aperto. Anche nella realtà tutto
sembra precario: lavoro, famiglia, affetti, istruzione.
La “visione global” non è l’unica colpevole. Le
ragioni sono varie: la crisi finanziaria che ci ha investiti dal 2009 in poi,
quella dei valori che va avanti da un po’, la deriva verso l’individualismo, il
venir meno degli insegnamenti generazionali e di una comunità di riferimento che non sia il gruppo di WhatsApp.
Tutti capisaldi del passato e “passati di moda” in
questa società liquida, dove ogni cosa non ha più contorni definiti e le regole
del gioco cambiano di continuo, a volte senza alcun senso. La vera bravura è
cercare di cavalcare l’instabilità,
trovare un equilibrio personale in un mondo frammentario, un’epoca che da
“liquida” è diventata “gassosa”. La
grande difficoltà è prevedere cosa succederà fra cinque minuti, cercando di non
cadere mentre il terreno su cui camminiamo ci trema sotto i piedi.
Euro e bitcoin
Quella dei diciottenni è la prima generazione a non avere pagato in lire. Per loro c’è l’euro. Sono quasi coetanei:
la moneta unica europea è stata infatti ufficializzata nel gennaio 1999. È
questo il primo segnale tangibile dell’Europa unita e, a quanto pare, è anche
uno dei pochi. Però è molto comodo, perché permette di viaggiare tra gli Stati
dell’UE senza obbligare a cambiare valuta, come erano costretti a fare i diciottenni
di vent’anni fa. Anche fuori dai confini del Vecchio Continente gli euro sono
generalmente apprezzati.
I giovani di oggi hanno fatto in tempo a vedere anche un altro passaggio storico:
i bitcoin, introdotti nell’ultima
decade da autore ignoto. Si tratta di criptovalute, sistemi di pagamento
virtuali privati non gestiti dalle banche. Anche questo è uno dei frutti della
rivoluzione internettiana.
Qualcuno la chiama moneta “anarchica”, perché non risponde alle logiche del mercato ufficiale (e
neanche ai suoi controlli) e ha una sua quotazione che fluttua molto da
transazione a transazione. In fatto di business, però, l’anarchia non esiste:
c’è sempre chi ci guadagna e chi ci rimette.
CHI SIAMO E COSA VOGLIAMO
In un contesto del
genere chi riesce a sopravvivere è bravo. Ma noi non ci accontentiamo di
vivacchiare. Vogliamo essere
protagonisti.
Per questo, un po’
ci adattiamo all’habitat che ci è stato preparato, un po’ ne sfruttiamo i
vantaggi, un po’ proviamo a cambiarlo. Perché siamo dotati di ottime qualità e intenzionati a
metterle a frutto.
Socializziamo? Web & Co.
Socializzare per
noi non è solo incontrarsi nelle sale o in giro. È anche scegliere se seguire o no qualcuno su Instagram,
condividere le foto dei nostri momenti migliori, commentare online un fatto o
un’idea, risolvere un problema.
Bianchi, neri,
turchini. Il colore della pelle e l’aspetto fisico non importano: la rete azzera le distanze e dietro lo schermo
ciò che vale sono i pensieri che si esprimono. E magari i “faccini” che li
accompagnano e che mettono in evidenza i nostri sentimenti del momento.
Non è vero che
stando seduti non si può fare niente: si può anche cambiare il mondo, come Zuckerberg quando ha creato Facebook. Basta
essere abili osservatori – e noi lo siamo – e bravi con la tastiera – e noi lo
siamo – . Se qualcuno ci accusa di non sapere più scrivere a mano (ma è tutto
da dimostrare), ribattiamo che siamo bravi a farlo rapidamente.
Non abbiamo paura
del web: ci siamo nati, e non siamo
apatici. I sentimenti si esprimono in mille modi, anche digitali. Per
questo le offese nella rete ci fanno male, e i like sul nostro profilo hanno
così tanta importanza.
Post verità
quando la realtà non ha più importanza
«Non è vero ma ci credo»: l’avvento del web e della globalizzazione ha
permesso di conoscere tragedie lontane e report segreti, però ha anche
sdoganato bufale e fake news. Notizie
stravaganti o anomale ma, nel dubbio, uno ci crede. Soprattutto se vengono
ripetute come un mantra e sparate su Facebook.
Una volta gettato il seme, smentirlo serve a poco. Perché, alla fine, ci si vuole credere. Com’è per la
storia del “falso primo passo sulla Luna” o delle scie chimiche. L’opinione di
un qualunque utente della rete vale come quella di un esperto, e quel seme
diventa certezza. Ecco come nasce la “post verità”, fasulla già dal nome.
Anche questo è un segno dei tempi, del sistema costruito per guadagnarci o
per influenzare le opinioni. I gestori dei social e le autorità UE cercano
rimedi per arginare il fenomeno. Il risultato non cambia: adesso i giovani non si fidano più, nemmeno quando
dovrebbero.
Sì, viaggiare
Amiamo viaggiare e
ne abbiamo l’opportunità: il treno e l’aereo, su tutti. I biglietti low cost li prenotiamo su internet: scegliamo i periodi
meno cari o mete abbordabili, e via. Un salto di due o tre giorni a Londra e a
New York si può sempre fare, magari per affinare la lingua o per respirare
l’aria e la moda delle città più importanti del mondo. E comunque, per capire
come la pensano gli abitanti di altre zone del globo.
Ci piace anche andare in bicicletta, quando capita. In
città è meglio della macchina. Ma la sera l’auto è più comoda per uscire con
gli amici, e andare a mangiare insieme in qualche locale del centro, magari accompagnando
la cena con un drink.
Politica sì, politici no
Quando ci
incontriamo parliamo anche di politica. Dicono di noi che ci disinteressiamo.
Non è vero: spreco, sostenibilità, economia, razzismo, violenza sono argomenti
che stimolano la discussione.
Non abbiamo paura di
esprimere le nostre opinioni. È che non
abbiamo fiducia nella politica dei partiti, che punta troppo ai proclami e
poi non ha concretezza. Per questo gli appuntamenti elettorali ci lasciano in
buona parte indifferenti, ma non manchiamo a quelli più importanti, dove si
parla di temi e non di partiti.
Hey, ci sono anch’io. Selfie e “ragazzate”
Come tutti i giovani, anche noi vogliamo essere
protagonisti del nostro tempo. Vogliamo lasciare
il segno. Un modo per farlo è riempire i nostri album dei ricordi (su
Instagram, ovviamente) di selfie con i momenti più belli, o avventurosi, o
divertenti.
Immortalare l’attimo
speciale è diventato semplice e immediato, e possiamo condividerlo con chi
vogliamo, a qualunque distanza. Possiamo imitare i divi dello star system e
vedere quanti like totalizziamo. In fondo è un gioco.
Qualcuno esagera, come quelli che si fanno l’autoscatto
sui binari del treno. O quelli che di recente hanno postato un video dove
dicono: «Abbiamo dirottato l’autobus!», mentre invece era un mezzo fermo al
capolinea e con poca gente dentro. Sono comportamenti che fanno discutere, in alcuni casi pericolosi. Al di là degli eccessi,
comunque, desideriamo raccontare quello che ci accade attorno; a modo nostro naturalmente,
perché qualcuno ci ascolti e ci dica «Bravi!».
Più forti,
più fragili
Con computer e
smartphone ci troviamo a nostro agio. A scuola anche. È l’ambiente in cui siamo
cresciuti, in cui maturano le nostre amicizie e a volte l’amore. Non è vero che
non comunichiamo tra noi. Certo, con
il telefonino è più facile: ci chiamiamo o ci contattiamo in chat, a seconda
delle esigenze.
Forse fatichiamo più
di un tempo a interagire al di fuori della scuola; siamo più timidi e ci
scoraggiamo facilmente se non ci sentiamo sostenuti. In questa società così
competitiva e individualista il
fallimento fa paura. Ma poi ci riprendiamo.
Abbiamo bisogno di amici con cui confidarci.
Per i consigli vanno bene anche Wikipedia o i tutorial di YouTube; per piangere
non c’è niente di meglio della spalla (anche virtuale) di uno della tua età.
Poi c’è lo “sballo”,
il tentativo di cercare la felicità annullando
il cervello nell’alcol o nelle droghe, chimiche e non. C’è anche chi segue
quella via. La maggior parte di noi però sta attenta a non prendere strade senza
ritorno.
Occhio
critico
Abbiamo imparato a non
prendere per oro colato quello che
troviamo nella rete. Stiamo più attenti quando navighiamo online e siamo più
diffidenti verso i post degli adulti, anche quando sono “qualificati”. Chi ci
assicura che certe cose non le dicano per interesse? Come quando affermano che
una dieta è migliore di un’altra o che quella medicina serve, mentre magari è
inutile.
Nella rete ci sono
(quasi) sempre le risposte ai nostri
dubbi; basta avere pazienza e mettersi a cercare. Siamo vaccinati contro le
bufale. Anche se, per la verità, anche a noi ogni tanto piace credere a una notizia.
Che male c’è?
Il senso della fiducia
La Generazione Z è la prima dal ’45
a oggi a essere stata educata fin dall’infanzia ad avere sfiducia nel futuro. Lo nota il docente di Demografia e
saggista Alessandro Rosina, che osserva come i neo adulti della Generazione Z
siano più disillusi, con aspettative più terra-terra ma anche più determinati
dei loro fratelli più grandi.
Sono portati a volare basso, senza
troppi voli pindarici della fantasia. Ma allo stesso tempo sono anche più concreti e “vaccinati” a sopportare
le molte contraddizioni della società d’oggi.
IL FUTURO
ALLE PORTE
Qualcuno ci chiama “bamboccioni” o NEET, cioè quelli che non studiano e non hanno un
lavoro, ma neanche voglia di provarci. Un’indagine USA rincara la dose e
afferma che i diciottenni di oggi sono responsabili come i quindicenni di
quarant’anni fa. È vero, situazioni del genere capitano, e non sono poche. Ma
non siamo tutti così.
Fannulloni o
iperattivi?
Il futuro è importante, lo sappiamo. Per
questo ci stiamo preparando. A dispetto di tutte le accuse di “fannullonismo”,
siamo in parecchi a voler proseguire gli
studi all’Università, anche se il primo obiettivo resta la maturità. Nel
frattempo, dobbiamo pensare all’indirizzo post diploma che vorremo seguire,
partecipare all’orientamento, prepararci per i test d’ingresso.
Alcuni di noi hanno avuto anche esperienze scolastiche all’estero: in
America, in Cina, o in altri Stati europei. Abbiamo letto tempo fa sul web di un
ragazzo che (appoggiandosi a un’associazione specializzata) ha vissuto per
diversi mesi a Boston, e che ora vuole restarci per iscriversi all’università. Come
si può vedere, non abbiamo paura dell’ignoto.
Studio
e lavoro
Anche per chi resta in Italia le sfide non
mancano. Il sistema scolastico, come tutto il resto, muta di continuo: meno male
che ci sono prof in gamba (di quelli che non ci piacciono non parliamo) che ci
aiutano a superare lo stress delle materie da ripassare e le ansie di una
maturità con regole che cambiano da
un anno all’altro. Un po’ di stabilità non farebbe male. Ma noi ci adattiamo.
Siamo “resilienti”, come si dice oggi.
Oltre a interrogazioni e compiti, dobbiamo fare
un percorso di alternanza scuola-lavoro che prevede brevi stage in azienda o in
attività in linea con il percorso di studi. E quando avremo finito, ci
cercheremo un lavoretto per pagare l’università o comunque per essere più
autonomi: camerieri, centralino, animatori turistici, commessi, rider. Niente
di definitivo a meno di trovare il posto
dei nostri sogni. I più intraprendenti tentano anche di partecipare a start
up (e-commerce, programmazione, app) magari portando il proprio apporto dal
computer di casa.
Tutto serve a fare esperienza.
L’esperienza
del volontariato
Il tempo a disposizione è quello che è,
cioè pochissimo. Le attività in oratorio e nelle associazioni di volontariato
diventano faticose da seguire. Per
non sclerare dobbiamo avere anche qualche ora da dedicare a noi stessi, a
svagarci. Altrimenti diventa tutto un impegno.
Le esperienze di volontariato fatte in
passato ci hanno insegnato molto,
non solo per la possibilità di metterci al servizio e alla prova, ma anche sul
piano delle relazioni con gli altri. Tutto diverso dalla scuola: le dinamiche
di gruppo, un’organizzazione e ritmi, altri amici. Ci piacerebbe poter continuare,
però i doveri scolastici e di lavoro ci assorbono tantissimo.
Il bisogno di credere
I giovani sono religiosi? Domanda
semplice, risposta complessa. Di certo, i diciottenni si dedicano in generale
molto alle attività che permetteranno loro di ricavarsi nel prossimo futuro una
situazione economica stabile, in Italia o all’estero. In un panorama del
genere, il tempo che rimane per chiesa e
oratorio è davvero poco.
Se si aggiungono gli impulsi
martellanti da più parti verso una concezione del mondo materialista e individualista dove non c’è posto per Dio, il quadro
è completo.
Eppure, una ricerca condotta con la
partecipazione di 300 giovani dai cinque continenti e 15.000 online in vista
della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi ha mostrato come i giovani
siano «grandi cercatori di senso e
tutto ciò che si mette in sintonia con la loro ricerca di dare valore alla
propria vita suscita la loro attenzione e motiva il loro impegno».
In altre parole, la domanda di spiritualità è molto
forte presso chi si avvicina alla maggiore età; non viene meno nell’incontro
con altre religioni ma anzi si affina, favorendo «situazioni di reciproco
riconoscimento. Ciò vale in particolare quando si è di fronte da un lato a un
ateismo o a un agnosticismo dal volto più umano, non arrogante, né presuntuoso;
e dall’altro a una credenza religiosa più dialogante che fanatica», si legge
nel documento preparatorio.
Che risposta dare a questa fame?
Sono gli stessi giovani a farlo, più che con le parole, attraverso l’esempio:
ciò che serve è la testimonianza
autentica, che è il linguaggio dei santi. E che non ha bisogno di
traduzioni.
La
famiglia in prospettiva
La dimensione digitale è parte di noi, ma
non ci completa: abbiamo bisogno di un po’ di realtà, del contatto con gli
altri per poter vivere. Quando t’insegnano per anni a essere un’isola, la
voglia di “fare famiglia” è tanta, anche se il modello tradizionale è in crisi profonda.
Perché la famiglia non è uno status sociale
ma un bisogno dell’anima, il desiderio di costruire qualcosa di bello e solido insieme
a un’altra persona, una speciale, con cui fare
lo stesso cammino, condividere noi stessi, aprire il nostro cuore.
L’affettività è fondamentale per crescere,
ma di fronte al rapporto di coppia
siamo a un bivio: da una parte c’è chi ha paura di stabilire un legame e allora
diventa freddino, impulsivo. Dall’altra sta chi è in preda a “dipendenza
affettiva” e diventa appiccicoso e geloso a oltranza. E c’è anche chi vive
questa dimensione come un modo per esibire trofei, per stare al centro
dell’attenzione.
Sul web si trovano molte cose sul sesso ma
nessun tutorial riesce a spiegare le
emozioni che si provano a stare insieme, la paura di perdere una persona
che è “tutto”, il terrore e il bisogno di fidarsi di qualcuno. Nessuno che ci dia
una vaga idea di cos’è giusto e cos’è sbagliato.
E lo sport?
A meno che non sia un’attività a livello agonistico che ci stia particolarmente a cuore, una volta scattato il diciottesimo anno lo sport fa come Cenerentola e scappa via. O meglio: a scappare sono i giovani, che devono concentrarsi sui fronti scolastico e occupazionale, rincorrendo programmi estremamente mutevoli per non stare indietro e venire scartati nei meccanismi sociali.
L’attività sportiva è vissuta nella maggior parte dei casi più come un obbligo che come uno svago. I più ben visti sono gli sport di gruppo: calcio e pallavolo, ma anche basket. Il nuoto è un evergreen. Resta difficoltoso seguire con regolarità un’attività continuativa, come si faceva da bambini.
Una terra nuova
Il mondo come un’unica casa. Un sogno e una
sfida per noi che stiamo per diventare maggiorenni. Una di quelle “scommesse impossibili”, che ci
arrivano dritte dalla società degli adulti, insieme alle promesse che non hanno
saputo mantenere e al debito che hanno contratto prosciugando le risorse
naturali e dedicandosi alla “finanza creativa”. Un debito grande, che dovremo
essere noi a ripagare.
Ma noi ci stiamo preparando.
«Mi vengono in mente le parole che Dio
rivolse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa
di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”», scrive papa Francesco nella
lettera ai giovani in occasione del Sinodo dei Vescovi di ottobre 2018. Aggiunge:
«Queste parole sono oggi indirizzate anche a voi: sono parole di un Padre che
vi invita a “uscire” per lanciarvi verso un futuro non conosciuto ma portatore
di sicure realizzazioni, incontro al
quale Egli stesso vi accompagna».
Poi il papa domanda: «Il suo fu un forte
invito, una vocazione, affinché lasciasse tutto e andasse verso una terra
nuova. Qual è per noi oggi questa terra nuova, se non una società più giusta e fraterna che voi desiderate profondamente
e che volete costruire fino alle periferie del mondo?».
Sta a noi, che da oggi siamo grandi, trovare la risposta.
Qualche numero
I giovani che nel
2018 compiono 18 anni sono 592.000. Quelli
che lo faranno nel 2019 sono invece 581.000.
Numeri che confermano il trend in decrescita nelle ultime generazioni.
Il loro impegno
nel mondo del lavoro è testimoniato da una recente indagine di AlmaDiploma e AlmaLaurea, che premia stage e tirocini nel periodo delle
superiori: chi li fa, secondo le rilevazioni dello studio, ha il 51% di chance
in più di trovare un lavoro rispetto a chi non lo fa; il 90% in più, se lo
stage prosegue dopo il diploma. In generale, a un anno dal diploma risultano
occupati 35 giovani su 100, con
prevalenza di chi ha frequentato scuole tecnico-professionali.
Almeno uno studente su due sceglie l’Università:
Ingegneria, Medicina, e dipartimenti scientifici per i più bravi, ma anche
Lettere, Economia e Giurisprudenza. Una controtendenza rispetto al passato,
dove i più preparati si gettavano a capofitto nelle facoltà umanistiche.