Le grandi domande sono cambiate

di Chiara Fiorio Tra mappe cognitive e concettuali Le grandi domande sono cambiate Serve una nuova visione culturale, che inve...

di Chiara Fiorio

Tra mappe cognitive e concettuali
Le grandi domande
sono cambiate

Serve una nuova visione culturale, che investa
la dimensione  familiare, economica e lavorativa per uscire dalle strettoie del nostro secolo che vede nell’aumento
dei consumi la risposta ai bisogni dell’uomo.

Qualche sera fa ero appollaiata sul divano, con un buon barattolo  di gelato fra le mani e aspettavo con ansia l’inizio del mio programma preferito. Poi, ad un tratto, la mia mente è stata ipnotizzata dalla pubblicità di una nota banca. Nell’arco di 31 secondi, una bella fanciulla mora si avvicina ad un’enorme finestra, guarda fuori: il suo volto è illuminato dalle sconfinate luci di una metropoli, il sole è al tramonto.
Siamo al momento di pathos: la bella si chiede se nello spazio siamo soli o se ci siano altri esseri viventi, facendo entrare in gioco tutta una serie di collegamenti esistenziali sull’io in rapporto al mondo, sull’infinita piccolezza dell’uomo rispetto alla natura, all’universo, a Dio... e poi? Ti aspetti una risposta a cotanta profondità e invece no, stolti!
Perché lei dice che la vera domanda è: «Perché devo pagare quando prelevo?». Ed ecco la frase finale che conclude e riassume il senso di questi 31 secondi: «Le grandi domande sono cambiate».
Dopo essermi resa conto di non essere più alla moda e di essere lontana anni luce da questo spostamento di rotta, sempre più diretto verso elisir di neo saggezza esistenziale, mi è sembrato chiaro che il filmato a cui avevo assistito si focalizzasse su due aspetti: l’uomo e il denaro.
Cosa è mutato nel mondo?
Se si confrontano le pubblicità di ieri con quelle di oggi, si vedrà bene come esse siano mutate. Certo, sono mutati i prodotti (più gustosi, più colorati, più efficaci contro le macchie mantenendo i colori brillanti) ma soprattutto sono cambiate le modalità di rappresentazione dei prodotti, perché è mutato il target a cui si rivolge.
Poiché allora l’uomo è mutato, la pubblicità non può far altro che accogliere e cullare questo essere moderno, proponendogli ciò che desidera. Insomma, i consigli per gli acquisti sono lo specchio dei desideri del presente. Sussiste tra l’uomo e la pubblicità lo stesso rapporto che c’era tra lo Specchio e la Regina cattiva di Biancaneve.
Tuttavia la matrigna chiedeva qualcosa di più effimero e certamente di meno pragmatico di un fustino del detersivo con il 30% di prodotto in più: la palma d’oro in bellezza su tutte le creature del reame. Un bravo scienziato oggi spezzerebbe facilmente le sue illusioni da top model, spiegandole che contro Mendel e un buon miscuglio di geni nemmeno lo Specchio riuscirebbe a far qualcosa.
Ma non divaghiamo. Si è detto che siamo di fronte ad un nuovo specchio, che ci dice che le domande sono cambiate, ma da dove vengono queste benedette domande? Dalla cultura, miei cari, che è generata dall’uomo stesso e che poi lo plasma, partendo dall’età dell’infanzia fino all’età matura, srotolandosi da persona a persona come un gomitolo di lana.
Pietro Barcellona, giurista e docente alla facoltà di filosofia a Catania, nel suo saggio Economia del noi afferma, infatti, la necessità di superare il luogo comune che considera la cultura come una sorta di lusso destinato all’abbellimento estetico della vita materiale. Ciò significa che la cultura non deve coincidere solo con la letteratura tenuta ad ammuffire nei libri scolastici, con il cinema, il teatro e ogni attività che si collochi sul terreno del godimento spirituale, «in una visione riduttiva ed effimera del ruolo della cultura nella vita sociale».
La cultura è la forma di vita di un popolo, è la creatività del gruppo che la istituisce, «vivendo immediatamente la dimensione dell’esistenza nell’insieme dei rapporti che danno vita al gruppo sociale stesso».  Traduco per me stessa. Tutto ciò che l’uomo attribuisce all’ambiente che lo circonda è fatto di cultura, e cioè di umano: la visione del mondo, le regole per il governo della produzione e per il vivere quieto tra e con altre creature dà la misura della cultura del popolo che l’ha generata.

La cultura di oggi è liquida
Se il secolo dei lumi si batteva per la vittoria della Ragione sull’ingiustizie e le prevaricazioni dei potenti e portava come propri emblemi personaggi come Robinson Crusoe  e Candido; se l’Ottocento si strappava i capelli per la rivincita dell’identità di un popolo contro la presenza dello straniero e inneggiava ai grandi atti di eroismo avendo come propri cavalieri gente del calibro dell’Ortis, la Post modernità ha  la legge degli iPhone, del mercato globale, del buio intellettuale e come anfitrioni veline e calciatori. 
Si può parlare di una crisi del-l’umanesimo, partita dal XX secolo, che continua a travolgerci ancora oggi e che è caratterizzata da una forte potenza tecno-scientifica e un’incalzante chiamata economica, formulata da leggi di mercato totalmente indifferenti al bene comune? Direi proprio di sì.
La cultura è stata svuotata dall’uomo moderno, che, al posto di fertilizzare il campo dei valori per renderli resistenti alle intemperie, lo ha diserbato senza pietà. Così facendo, abbiamo ottenuto quella che Bauman, sociologo polacco novecentesco, chiama società liquida. Bisogna intendere per liquida una società che ha fatto proprie le caratteristiche di questo stato di aggregazione, nel quale le molecole possono scorrere l’una sull’altra.
Un liquido non ha una forma propria, ma assume sempre quella del recipiente che lo contiene. Tutto, i rapporti, il lavoro, la morale, il vivere quotidiano è allentato, tutto si deve poter sciogliere senza troppe lungaggini. Ma anziché liberare, tutto questo porta con sé una estrema fragilità dei legami umani e una sensazione di insicurezza.

Vivere nell’insicurezza
e nella precarietà
In ogni relazione, l’altro rappresenta sempre un’incognita, tanto da percepire il legame come un futuro impossibile da predire, un destino incerto. L’arte di amare, ci dice il sociologo tedesco Erich Fromm, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio. Tuttavia in una cultura svuotata, questi articoli non si trovano tra gli scaffali “mattoni per muri” del reparto costruzioni al “Fai da te”.
La nostra è una cultura consumistica, che preferisce prodotti pronti per l’uso, quattro salti in padella dell’amicizia, soluzioni rapide, garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”. In questa cultura, imparare l’arte d’amare e un’esperienza simile alla vendita di altre merci, che attira e seduce, promettendo risultati senza sforzi.
Comprare un oggetto ci appaga,
ma se non possiamo permettercelo
 il finanziamento è dietro l'angolo.
È il pegno da pagare
al consumismo.
In questo infausto orizzonte, quanto è faticoso mettere tutta la nostra liquidità in stampini decorativi e congelarla per renderla solida? E sì, perché i solidi sono caratterizzati dal fatto che la loro struttura microscopica è ordinata: le particelle sono disposte secondo uno schema geometrico caratteristico al cui interno c’è un’unità fondamentale che si ripete, sempre uguale a se stessa, nelle tre direzioni dello spazio. Eppure c’è qualcosa che impedisce questo passaggio di stato: la precarietà, in ogni aspetto della vita.
Infatti, se l’altro è davvero la X della mia equazione, se tutto deve essere veloce, bello e ben finito, allora non c’è bisogno che io costruisca, che io impieghi sforzi, sudore, impegno per costruire il mio ponte-verso, dato che è più facile buttare quando la cosa non funziona più.
Tuttavia la decostruzione non è solo dei rapporti, ma è caratteristica di un altro aspetto essenziale per l’uomo: il lavoro. E qui, signori, si apre una porta che emette lo stesso urlo delle porte dell’inferno dantesco. Questo è il regno della precarietà, della Circe dei lavoratori,  dal quale tu, piccolo uomo trasformato in maialino pasciuto, vorresti scappare, ma non puoi. 
Ormai non possiamo più fare sogni di gloria, possiamo sperare di avere un luogo dove vivere che abbia qualche metro in più del mono-monolocale di 30 metri quadrati, in cui devi mangiare, dormire, andare in bagno, perché, anche se l’IKEA offre splendide soluzioni di arredamento, sono sempre convinta che sia alquanto difficile e alienante vivere a puffolandia. Ma in cos’altro si può sperare? Chi diceva che il lavoro nobilita l’uomo, non conosceva i contratti di oggi, i cui nomi, co.co pro, co.co bla bla, risuonano come galline nel pollaio.

Riporre la nostra fiducia
negli oggetti e nel denaro?
In questa dimensione destrutturata, l’uomo si trova ad affrontare un senso di vuoto, un buco allo stomaco che è come la fame. Tuttavia se questa fame non può essere colmata dai valori, dalle relazioni, cosa gli rimane da fare? Comprare.
Comprare un oggetto ci appaga, ci fa sentire meglio, ci fa sentire quasi felici. Passiamo da un oggetto all’altro come se fosse una droga: terminato l’effetto riempitivo di una cosa, ne abbiamo bisogno di un’altra e via dicendo. Nella possibilità di un acquisto ci sentiamo realmente liberi e per farci sentire ancora più liberi, ci vengono incontro con rate, con finanziamenti, permettendoci, così, qualsiasi tipo di acquisto. Non puoi permetterti il televisore al plasma di 72 pollici sul quale potrebbero guardare la partita della domenica tutti gli inquilini del tuo condominio? Che problema c’è? Lo puoi acquistare con un tot di rate a prezzo bassissimo. Non puoi permetterti il cellulare all’ultima moda, che riuscirebbe a intercettare anche i segreti più reconditi della CIA? E che problema c’è? Ti facciamo un finanziamento! «Canta – diceva la strega del mare alla bella sirenetta – canta», per rubarle la voce e l’anima. Se scendi a patti, pagherai sempre pegno. Il nostro pegno si chiama capitalismo, consumismo, società dei consumi.
Certamente, per consumare abbiamo bisogno di uno strumento: il denaro. Giorgio Agamber, filosofo e docente all’università di Verona prima e Venezia poi, nel suo scritto Economia del credere dipinge da una parte il denaro come la sfera intorno alla quale gira tutto il nostro credere, e dall’altra le banche come il tempio di questo nuovo dio. Il denaro è un credito, cioè il luogo in cui noi mettiamo tutta la nostra fiducia.
Lo studioso afferma ancora: «La cosiddetta crisi è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine e decine di volte prima di poter essere realizzati.
Ciò significa che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l’organo principale – funziona giocando sul credito, cioè sulla fede degli uomini», arrivando alla conclusione che vada presa alla lettera l’ipotesi di Benjamin, secondo la quale il capitalismo è in verità la religione più feroce che sia mai esistita, perché non conosce redenzione o tregua. Custodi di questa sacralità, le banche, come antiche vestali, governano il credito, manipolano e gestiscono la fede che nel nostro tempo ha ancora in se stesso.

È il momento di tirare le fila
Se quindi l’uomo si trova in questa dimensione a tratti realmente inquietante, se non può nemmeno chiedere aiuto alla cultura, che ha allontanato dai veri perni dell’esistenza per ingioiellarla di scienza tecnologica ed economica, quale può essere il cammino da prendere?
Purtroppo credo che nemmeno Salomone avrebbe oggi giorno abbastanza saggezza per poter risolvere tutta la serie di problematiche di cui si è parlato fino ad ora. Eppure credo che un bel “basta!” potrebbe essere un buon inizio. Sì, basta a questo forte individualismo che ci caratterizza, basta alla convinzione che il successo concorrenziale sia l’unica modalità per essere primi, basta alla selvaggia necessità di rispondere a degli status quo per sentirsi conformi a mode che oggi ci sono e che domani saranno spinte via da qualcosa di più chic o di più cool.  
Occorre tornare al noi.
Sono consapevole che detto così, sembri un po’ l’inizio di uno di quei romanzi dai buoni sentimenti del tipo Libro Cuore, ma se ci fermiamo un attimo, forse capiremo che non è così irrealizzabile. Passiamo anni a scuola a studiare lo stesso programma di biologia, eppure difficilmente ci ricordiamo di quanto, in una società così ben organizzata, siano perfette le api, pur nel loro essere un po’ disgustose con tutti quegli occhietti sulla capoccia. Loro sì che sanno cosa significa essere noi. Tutte le mattine si svegliano, escono dalla loro cella, si spaccano le ali per un’intera giornata, tornano indietro, suppongo, stanche morte per un fine che è il fine di tutte. Un po’ romanzata, direte voi. Forse, ma mi piace pensare a loro come un ottimo esempio di cooperazione.
Ritornando al regno umano, cooperazione significa operare insieme, mettere in moto delle risorse collettive capaci di incidere concretamente sui disequilibri di oggi.
Cooperare per primi
ad ogni livello
Per prima cosa, però, è necessario che si smetta di sbatacchiare la testa come dei pupazzetti da macchina, annuendo e pensando che si dovrebbe davvero collaborare per poi continuare a far nostro il motto “armiamoci e partite” che è ben comodo e sbologna all’altro la responsabilità del fatto che gli eventi non siano andati per il verso giusto. La collaborazione deve passare attraverso tutte le maglie della società e dell’economia, a qualsiasi livello. Nella vita quotidiana, l’assenza di scambi di reciprocità con il vicinato (modalità che in passato innervava la società) porta con sé un aumento dei costi familiari, rispetto a esigenze che potrebbero essere realizzate cooperativamente.
Accompagnare i bambini a scuola o assisterli nel tempo libero, per esempio, può diventare un fatto cooperativo: famiglie che si organizzano nel trasporto o nell’occuparsi dei ragazzi una volta usciti da scuola comportano una spesa minore, un minor consumo delle auto e migliori rapporti tra le persone, che potrebbero così imparare a parlarsi e ad aiutarsi.
Ancora, uno stesso nucleo di casette con giardino potrebbero collaborare nell’acquisto di un solo tagliaerba, utilizzato da tutti. Questo significherebbe poter acquistare un bene di qualità, che da soli non si sarebbe riusciti a comprare, che duri nel tempo, e che ci insegni il rispetto dell’altro attraverso il buon uso dell'oggetto stesso.
A livello industriale, ci sono stati casi in cui dipendenti di un’azienda hanno concordato la riduzione del proprio monte ore per far sì che ciascuno mantenesse il lavoro, attraverso quei tipi di contratto chiamati “contratti di solidarietà”.

Il circuito virtuoso dell'euro
A livello economico, si può prendere come esempio il cammino di un euro, impiegato in un circuito “ad alta solidarietà”. Mi avvalgo, per iniziare questo viaggio, del saggio Economia della solidarietà di Leonardo Becchetti, professore di economia a Roma e membro del consiglio di presidenza della Società italiana degli economisti.
Il modo migliore per utilizzare un euro in questo circuito è quello di capitalizzare una banca di micro credito in un Paese del Sud del mondo, anche se il ragionamento potrebbe essere valido, seppur con alcune differenze, anche per l’Italia, quando si voglia aiutare l’accesso al credito a piccole aziende che non riescono ad ottenere nulla dalle banche tradizionali.  Il nostro euro aumenta le risorse di tale banca e, per effetto del moltiplicatore bancario, consente alla banca stessa di prestare fino a 8-10 euro per finanziare nuovi investimenti di clienti che in genere chiedono risorse per piccoli progetti, per uscire dall’estrema povertà e far vivere la famiglia in maniera quasi decorosa.
I soldi presi in prestito sono utilizzati per l’acquisto di piccoli beni e per avviare un’attività nell’agricoltura o nel commercio. Il rendimento del capitale in questi casi è davvero molto elevato: i dieci euro, generati dal mio euro, possono diventare 15-20 euro in termini di valore economico finale, che si trasforma tutto in consumi (i poveri consumano tutto o quasi tutto quello che guadagnano). Così facendo si va a interagire con il gravissimo problema del sostegno dei consumi interni sia nei Paesi in surplus, sia nei Paesi in deficit, laddove aumentare il tenore di vita dei ceti medio-bassi è prioritario. 
La solidarietà del circuito descritto non è solo mia, che ho deciso di investire il mio euro in questo modo, ma anche della banca in cui ho investito. Una banca, cioè, che invece di massimizzare il profitto e, dunque, dedicarsi ad attività ad alto rendimento, acconsente di sacrificare il proprio utile per fare piccoli e piccolissimi prestiti a tassi sostenibili con rendimenti assai limitati.
Si tratta, quindi, di innestare nel senso comune un nuovo spirito di reciprocità, ispirato dal fatto che dalla cooperazione non si può altro che ottenere vantaggi.  Tutto ciò sembra utopico? Oppure è giunto realmente il momento di fare qualcosa per noi, per uscire da una crisi non solo economica ma di costumi, per riprenderci un po’ quello che siamo, piantandola di scuotere la testa dicendoci che così non va, che siamo allibiti di fronte a tanta ignoranza, a tanta ingiustizia eccetera, eccetera... senza però far nulla per migliorare.

Credo che non sia più il tempo di dire “ai posteri l’ardua sentenza”, perché quei benedetti posteri siamo già noi, con in mano potenti capacità da alimentare, ripetendosi nella mente il motto di Margaret Mead, celebre antropologa statunitense: «Non dubitare mai che la capacità di un piccolo gruppo di persone motivate possa cambiare il mondo».











Related

Società 580418032114241148

Posta un commento

emo-but-icon

Dimensioni Nuove CHIUDE

Dimensioni Nuove CHIUDE
Un saluto a tutti i nostri affezionati ma purtroppo troppo pochi lettori

Sfogliabile

Sfogliabile
Sfoglialo online

DIMENSIONI NUOVE

"È la rivista mitica, se così la possiamo definire, che l'editoria cattolica italiana dedica al mondo giovanile da sempre".

Newsletter

Iscriviti a Dimensioni Nuove
Email:

Recenti

Commenti

Facebook

Links

item