Il rebus del Mali
Un Paese posto in un’area geopolitica, che con il crollo del regime libico di Gheddafi nel 2011, diventa decisivo per la sicurezza e lo ...
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Un Paese posto in un’area geopolitica, che con il crollo del regime libico di Gheddafi nel 2011, diventa decisivo per la sicurezza e lo sviluppo dell’Africa.
L’emergenza
in Mali è parte dell’instabilità del Sahel e dei suoi Stati fragili. Nonostante
questa zona sia ricca di risorse energetiche e minerarie, le popolazioni
continuano a vivere con fatica la loro esistenza a causa del banditismo, della
siccità, della malnutrizione, della malaria, della corruzione e dei fenomeni
migratori.
Gheddafi,
quando era in vita, operava nei confronti degli Stati del Sahel una sorta di
tutela economica e politica. Investiva parte dei proventi della vendita del
petrolio libico in opere pubbliche per offrire anche ai migranti del Sahel
lavoro e sicurezza.
Cooperava, in
particolare con il Mali, il Niger e il Ciad, che non hanno sbocco sul mare,
nella costruzione di infrastrutture per agevolare il trasporto di merci e
favorire il commercio. Mediava tra le parti in causa negli Stati del Sahel per
evitare i conflitti.
Difendeva e
controllava i Tuareg, “uomini blu”, berberi nomadi del deserto, presenti in
Libia, in Algeria, in Mauritania, nel Nord - Est del Mali, in Niger.
Cresce l’estremismo islamico
Con la
sconfitta inflitta dalla Nato, dai francesi e dai ribelli libici a Gheddafi, lo
scenario è cambiato.
I Tuareg e i loro alleati jihadisti il 17 gennaio del 2012
attaccano le principali città del Nord del Mali.
I Tuareg, ben addestrati e ben
armati che facevano parte dei reparti libici, pochi mesi prima avevano lasciato
la Libia e attraverso il Niger e l’Algeria erano entrati nel Nord del Mali
unendosi con i Tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla)
con lo scopo di realizzare una repubblica indipendente tuareg.
L’esercito
maliano, impreparato e diviso da contrasti interni dopo il colpo di Stato
avvenuto a Bamako, capitale del Mali, nel marzo del 2012, si ritira dal Nord del Mali e il 5 aprile i Tuareg dichiarano l’indipendenza
dell’Azawad.
La situazione in breve tempo precipita e il Mnla, che vuole la
secessione e uno Stato laico, viene cacciato dai jihadisti dal Nord del Mali. A
Kidal prende il comando Iyad ag Ghali, capo di Ansar Eddine (Difensori della
fede), una fazione tuareg salafita. A Timbuctù comanda Al Qaeda nel Maghreb islamico
(Aqmi) e a Gao il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale
(Mujao).
I jihadisti mirano ad estendere le zone occupate e a imporre la
sharia. Cresce la tensione, aumentano i drammi umani e i profughi che abbandonano
le zone occupate. Bamako si sente in pericolo e preme per un intervento armato per
bloccare l’avanzata jihadista.
La Francia decide di intervenire per difendere l’integrità
territoriale del Mali e i propri interessi nell’area del Sahel.
L’Onu, con la risoluzione
2085 del 20 dicembre 2012, autorizza la formazione di una Missione
internazionale di sostegno al Mali (Misma) sotto la guida francese. L’11
gennaio del 2013 inizia l’operazione Serval. I miliziani islamisti che stavano
per conquistare Konna, città che dista 700 Km da Bamako, vengono fermati e
colpiti dall’aviazione francese.
Dopo tre settimane di attacchi aerei e grazie alla
contro-offensiva terrestre franco-maliana, affiancata da militari africani
della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) e dell’Unione
Africana, le principali città del Nord del Mali sono liberate. Molti jihadisti,
dopo la sconfitta, vanno via dal Mali, altri continuano a combattere.
Nei
succes- sivi mesi, i militari francesi, i maliani e
le truppe africane dovranno rendere sicuri i confini, le zone desertiche, le
gole e le valli del massiccio montuoso dell’Adrar degli Ifoghas. Accolti con
entusiasmo dalla popolazione del Nord del Mali liberata dalle angherie dei
miliziani islamisti, i militari francesi intendono lasciare il Paese al più
presto, lasciando il posto ai caschi blu dell’Onu.
La situazione militare però
permane critica in Mali, perché i jihadisti possono riorganizzarsi e tornare a
colpire, e la presenza di almeno mille soldati francesi sarà necessaria ancora
per un lungo periodo. Tra le truppe che fanno parte del Misma, i militari
africani del Ciad e della Nigeria sono i più numerosi e i più motivati a neutralizzare
i miliziani islamisti.
Essi temono che i miliziani possano entrare nei loro
Paesi e creare seri problemi. Questi jihadisti di diverse nazionalità, se non
fermati, rappresentano un serio pericolo per gli Stati del Sahel. Del resto le
frontiere tra questi Stati rimangono instabili e difficili da tenere sotto
controllo per la loro estensione, mentre permangono troppe aree dove avvengono
traffici di ogni genere che finiscono per finanziare le bande armate. Cresce il
rischio che trafficanti e jihadisti possano saldarsi, con la finalità di
destabilizzare questi Stati o di boicottare le loro economie.
Stabilità a rischio nel Sahel
Sono molti i
Paesi del Nordafrica e del Sahel che temono il contagio jihadista e
ripercussioni politiche ed economiche. L’Algeria, la Mauritania, la Libia e la
Tunisia sono in stato di allerta Prova ne sia che il 16 gennaio del 2013 l’impianto
di estrazione del gas In Amenas a Tiguentourine nel sud-est dell’Algeria venne attaccato
dai miliziani di Aqmi che catturarono molti ostaggi. I militari algerini
decisero di intervenire per liberarli, ma restarono uccisi 36 ostaggi stranieri
e 29 rapitori.
L’Algeria è lo Stato che si trova maggiormente a rischio di
attacchi per il ruolo di contrasto che oppone agli islamisti e per la presenza
sul suo territorio di numerosi impianti di gas e petrolio.
La Nigeria, primo
produttore africano di petrolio, subisce da alcuni anni gli attacchi dei miliziani
islamici di Boko Haram (che significa: “la cultura occidentale è peccato”) e
teme che la situazione, se non arginata, possa precipitare. I cristiani e gli
stranieri vivono in Nigeria in costante pericolo.
Il Ciad, produttore di
petrolio, teme per la sua sicurezza a causa dell’instabilità dei confini con il
Niger e la Libia. Il Niger è il terzo produttore mondiale di uranio e i suoi
siti minerari sono protetti dai militari. La labilità dei confini con l’Algeria
a nord e ad ovest con il Mali rende il Niger estremamente a rischio.
La Francia
che dispone di numerose centrali nucleari è molto interessata alle miniere di
uranio del Niger e alla loro difesa.
Tragedia culturale
Il Mali, che
dispone tra le sue sabbie di molto oro, è rimasto per un anno diviso in due tra
la zona politica e agricola del sud e quella turistico- commerciale e culturale
del nord.
La favolosa Timbuctù, “città dei 333 santi”, patrimonio dell’umanità
dell’Unesco, meta esotica dei turisti collocata nel Nord del Mali dove vivono i
Tuareg, ha subito enormi danni, molti santuari e manoscritti rari sono stati
distrutti.
La “regina delle sabbie”, crocevia nel passato di rotte carovaniere,
simbolo dell’islam tollerante e colto dei sufi, adesso sembra una città
fantasma. I combattimenti, a distanza di due mesi dall’offensiva francese,
continuano nell’area intorno a Timbuctù.
Il Mali e gli altri Stati del Sahel si
trovano a dover contrastare gli islamisti e necessitano di aiuti militari da
parte dei francesi e degli americani per mettere in sicurezza i loro Stati, le
loro ricchezze energetiche e minerarie.
Una soluzione non solo militare
In Mali la
soluzione del conflitto non è solo militare, ma richiede anche l’intervento
della politica e dell’economia. Innanzi tutto per arrivare alla formazione di
una democrazia stabile è necessario che il governo maliano trovi un accordo con
i Tuareg e con le altre etnie del Nord del Mali.
Occorrerà poi vedere che ruolo
vorranno svolgere la Francia e gli Stati Uniti nella ricostruzione del Paese. Il
Mali ha bisogno di infrastrutture e di telecomunicazioni per potersi collegare
con il resto dell’Africa. La sicurezza dunque non è sufficiente per isolare il
fenomeno islamista.
Per gli economisti l’Africa subsahariana continuerà a
crescere nei prossimi anni, mentre l’Africa saheliana, nonostante le sue
ricchezze, se non verrà aiutata rimarrà esclusa dalla crescita economica
africana.
Romano Prodi, inviato speciale delle Nazioni Unite per il Mali e il Sahel, ha proposto ai leader del mondo di realizzare
un Fondo internazionale di aiuti per lo sviluppo del Sahel, sotto l’egida dell’Onu,
ma gestito dai singoli Stati donatori.
Ogni Paese donatore dovrebbe assumersi
la responsabilità e la gestione dei vari progetti, che riguardano le
infrastrutture, il settore energetico, agricolo, commerciale e anche la formazione.
In questo modo tali aiuti, affiancati alla sicurezza e a governi efficaci e
credibili, potrebbero mettere in moto lo sviluppo degli Stati dell’area saheliana.
Ma troppi attori con i loro interessi contrapposti stanno muovendosi in quest’area
dell’Africa per sperare di vedere a breve soluzioni pacifiche e di sviluppo. La
situazione è complicata. Nei conflitti dell’area saheliana, nordafricana e
mediorientale circolano le armi sparite dalla Libia e le formazioni jihadiste.
La Francia sembra aver ripreso a influenzare tutta la sua ex area coloniale in
Africa. Gli Stati Uniti stanno intensificando le misure di controllo e di
contrasto ai jihadisti nel Sahel anche con la creazione di basi di decollo dei
droni, come quella prevista in Niger.
Inoltre mirano a contenere e a
contrastare l’influenza della Cina nel Sahel. I cinesi sono molto attivi nel
commercio e sono interessati alle materie prime.
La Cina è il primo partner
commerciale del Mali. In conclusione anche in questa parte del mondo le forze in
campo sembrano interessate più a prove di forza, per garantirsi le ricchezze
naturali del Sahel, piuttosto che creare le premesse per uno sviluppo
sostenibile dell’Africa, che porterebbe vantaggi per tutti.
Graziano Chiura