Pietà
Il leone d’oro va a “Pieta’” cioè alla madre (Mostra internazionale del cinema di Venezia 69) Appena visto, con una stretta al c...
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Il leone d’oro va a “Pieta’”
cioè alla madre
(Mostra internazionale
del cinema di Venezia 69)
Appena visto, con una stretta al cuore per la denuncia estrema dell’orribile mercato economico che altro non è che il demone che dall’alto del monte mostrò a Gesù i regni di questo mondo; ne sarebbe divenuto “padrone” no solo di quei regni ma anche di tutta l’umanità se solo gli si fosse sottomesso, il film di Kim Ki-duk Pietà (una specie di copia moderna della Pietà di Michelangelo) intesse nella sua spietata rete tutti gli spettatori. Specie per la presenza dolente e tragica della Madre, che rimane la figura più alta anche in altri film presentati in questa 69a Mostra di Venezia.
Kim Ki-duk
È il regista coreano noto per il modo forte, intenso, spesso quasi pornografico con cui rappresenta la violenza. Uno di quegli autori capaci di tenere lo spettatore in uno stato di tensione perenne.
Ed è questo ciò che accade in Pietà, l’ultima sua fatica, una pellicola-shock, brutale e drammatica. Che parla di vendetta, di soprusi, di menomazioni, di rapporti incestuosi tra madre e figlio, di un mondo di poveracci ossessionati dalla ricerca del denaro. E del continuo oscillare dei suoi protagonisti tra due estremi: la voglia di far del male ciecamente a chi si ha di fronte, e quella compassione citata nel titolo dell’opera.
Denaro e violenza
Centoquattro minuti di cinema intenso, in cui allo spettatore non viene risparmiato nulla. Già dalla prima scena, infatti, si viene immersi nel mondo del protagonista, lo strozzino Kang-do (l’attore Lee Jung-jin): dipendente di un boss locale, trascorre la giornata a mutilare, menomare o fratturare le ossa alle persone che non riescono a ripianare i loro debiti. Verso di loro, almeno all’inizio, nessuna compassione: il lavoro viene eseguito con freddezza e competenza, e le vittime lasciate vive per riscuotere l’assicurazione di invalidità con cui ripagheranno i loro aguzzini.
Le cose cambiano quando nella sua vita appare all’improvviso una donna misteriosa che si chiama Mi-sun (Cho Min-soo), e che afferma di essere sua madre. Lui la rifiuta, la mette alla prova in tutti i modi, arriva perfino a stuprarla in modo agghiacciante. Ma alla fine, desideroso di un amore che non ha mai avuto e attratto da lei, la accoglie nella propria vita. Prima di un epilogo da tragedia greca, in cui la pietà viene uccisa dalla necessità di portare fino in fondo la più terribile delle vendette.
La pellicola ha ricevuto il Leone d’oro della 69a Mostra del Cinema di Venezia. Un premio meritato, perché non politico o di parte. I segni di questo Leone c’erano già dalla prima proiezione per gli “esperti” del mestiere (quei giudici che spesso si fanno vincere da altri sentimenti, senza tenere da conto che bisogna scrivere che cosa può davvero interessare gli spettatori in cerca di emozioni). Il regista, del resto, alla Mostra non è mai passato inosservato: nel 2000, con le sue scene insostenibili del film L'Isola, causò perfino svenimenti in sala; quattro anni dopo, vinse il Leone d'argento con Ferro 3. Stavolta, spiega che con quest’opera ha voluto concentrarsi sui guasti della "società capitalista, in cui il denaro mette alla prova le persone. E in cui la gente è ossessionata dalla fantasia che i soldi possano risolvere tutto: finché le persone di quest'epoca non muoiono, il denaro continuerà a porci tristi domande". Ed è verissimo. Oggi non si parla di altro.
Cosa ha detto il regista
«Io ho vissuto dai 15 ai 20 anni nel mondo che presento in Pietà, facevo l’operaio, prima di andarmene a Parigi a studiare arte, perché volevo fare il pittore. È tra quelle casupole di ferro, di cartone, di plastica, dove negli anni 50, subito dopo la guerra di Corea, si rifugiarono gli immigrati in cerca di fortuna, che sono nati i nostri primi cellulari, che è iniziata quella che poi è diventata la nostra potente industria informatica. Io voglio preservarne l’immagine e la memoria storica, perché tra qualche anno quel luogo non esisterà più, sostituito dai banali simboli del capitalismo, i grattacieli».
Kim (cognome) Ki-duk (nome), è nato il 20 dicembre del 1960 a Bonghwa, provincia di Kyongsang in Sud Corea. È regista, sceneggiatore dei suoi film, artista e produttore.
In 16 anni ha realizzato ben 18 film. Noi lo conosciamo da parecchi anni: nel 2004 partecipò alla Mostra di Venezia con Ferro 3 che presentammo su D.N. perché capimmo che di strada ne avrebbe compiuta parecchia e sempre con lavori eccellenti. Il film che quest’anno gli ha dato il Leone d’oro, è drammatico e sgradevole: narra la storia di un «recupera crediti» per conto di un usuraio, che picchia e storpia in modo crudelissimo tutti i debitori. La crudezza delle scene fa parte dell’arte di Kim perché nell’ L’isola, un film del 2000, una donna ingoiava un set di ami da pesca e poi se li strappava dalla gola, giusto per ingannare il tempo. Il 52enne regista coreano ama mettere in scena una dura realtà del capitalismo coreano, in cui la brama di denaro delle multinazionali uccide letteralmente la piccola impresa. Ciò deriva dalle sue esperienze di vita: nato a Bonghwa, nella Corea del Sud, a nove anni si trasferisce a Seul con la sua famiglia, dove frequenta un istituto professionale per l’inserimento nel settore agricolo. Finita la scuola dell’obbligo, a 17 anni viene assunto come operaio in fabbrica ma non vi resta molto; appena ventenne si arruola in marina per un periodo di cinque anni. In quel periodo è colto da una crisi religiosa: la sua strada incrocia quella di una chiesa per non vedenti, con l’intenzione di diventare predicatore. Poi parte per Parigi dove comincia in vari modi la sua carriera di artista. E i risultati si possono ammirare e sono ottimi. A Venezia lo abbiamo incontrato e gli abbiamo posto alcune domande.
Quello che sconvolge nei suoi film è l’odio che tesse la vita dei protagonisti…
L’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile.
Cosa ha provato all’annuncio di aver vinto il Leone d’oro?
Sono fuori di me dalla gioia, ancora non posso credere di avere vinto questo premio.
Lei dice che il suo film Pietà è un film d’azione, non le pare troppo?
Posso dire che è un film mainstream, in cui l'estetica e la narrazione per immagini non vanno mai a “intralciare” o soffocare il plot. Un plot diretto, comprensibile, capace di parlare a tutti attraverso metafore semplici che veicolano messaggi potenti e legittimi.
Non le sembra che Pietà è un titolo antitetico rispetto alla crudeltà che nel film mostra il protagonista?
Verissimo. Ma l'intervento della madre rimette tutto in discussione e costringe Kang-do ad affrontare questioni morali che prima aveva rimosso. La pietà è quello che lo spinge a lasciarsi la violenza alle spalle, la pietà si insinua nella mente di uno dei personaggi nel momento in cui deve prendere una decisione cruciale. Pietà, però, è anche quello che le vittime di Kang-do implorano prima di essere da lui brutalizzati.
Ma la madre compie una terribile vendetta…
È vero, però il cammino di redenzione agli occhi di Dio non può, dopo tutto, essere in discesa: Kang-do dovrà prima raccogliere tutto il male che ha seminato. Dalla catarsi finale arriva, forse, la purificazione e una chance di ricominciare da capo.
In ogni caso, lei ha voluto mostrare il male che può fare la sete del denaro….
Nel mio film intendo mostrare il vero volto del denaro, che in sé non è condannabile. Ciò che è condannabile è l'uso perverso che se ne fa. Se lo spazio nel mio film è 'analogico', i protagonisti si possono definire 'digitali'. Si muovono senza memoria e senza radici e sono solo interessati al denaro. Volevo parlare di un'essenza umana che stiamo perdendo e della salvezza dell'umanità attraverso il recupero di determinati valori.
Pietà è stato definito di matrice cattolica
Non ho pregiudizi nei confronti di alcuna religione. Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera è un film dichiaratamente buddhista, La samaritanaè protestante, questo è visto come cattolico. Personalmente non è una cosa voluta: io ho una mia religione, ma non la indico mai nei miei film.
I luoghi dove ha girato il film sono fatiscenti…
Ho girato nel quartiere di Cheonggyecheon, a Seoul: Quel posto esiste ancora. Ci ho vissuto per cinque anni e lavorato come operaio. È una zona molto importante per lo sviluppo della Corea, perché ha visto nascere l'information technology coreana. Credo sia destinato a sparire nell'arco di pochi anni, ed è anche per questo che ho voluto girare il mio film lì.
Maria De Falco marotta & team