Sul ring della vita
Roberto Vecchioni ci è andato spesso, ma oggi non vuole farci salire più nessuno. E si dimette da questo mondo, in cui stenta a ricono...
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ma oggi non vuole farci salire più
nessuno. E si dimette da questo mondo, in cui stenta a riconoscersi, con un
album profondo e di grande sostanza:
“Io non appartengo più”.
Sul ring della musica Roberto Vecchioni ci è salito spesso, almeno 25 volte, tanti sono i suoi album
di studio pubblicati finora. E a ogni combattimento, ne è sempre uscito vincitore, anche quando, qualche volta,
il fiato era un po’ corto, ma trovava sempre il “gancio”... melodico giusto da
assestare nel disco.
Nel suo nuovo lavoro, Io non appartengo più, di colpi perfetti l’artista milanese ne mette a segno
parecchi e ci consegna uno dei suoi cd più riusciti, sia
dal punto di vista musicale che testuale. Un album che arriva a sei anni dal
precedente Di rabbia e di stelle e che riassume in buona parte un periodo di
riflessione per il Professore, segnato anche da una brutta malattia oggi
superata, che ha lasciato il segno nei brani. D’altra parte, Vecchioni il “suo”
mondo nelle cose che fa lo ha sempre messo con forza e passione, sia che fosse
semplice osservatore o protagonista, che scrivesse brani oppure libri.
Questione di stile e di cuore che, in questo caso, quando si parla di musica,
si tramuta in canzone d’autore, dove le note s’intrecciano con le parole, mai
banali, ma pensate, profonde, intime.
Un album, dunque, di sostanza, cui si deve dedicare
attenzione nell’ascoltarlo in tempi dove la frenesia sembra farla da padrone. E
il richiamo alla serena riflessione s’intercetta fin dalla copertina, con
Vecchioni seduto in poltrona al centro del ring circondato da «oggetti di valore eterno – come dice lui stesso – . Un’immagine
che però non ha nulla a che vedere con il nichilismo, lo
sconforto, la resa... Piuttosto la presa d’atto che l’essere umano più di tanto non riesce a fare, non riesce a dare: talvolta
stringe la mano agli altri perché nel buio non
capisce niente o si rivolge al cielo, talvolta si convince che deve farcela da
solo».
Si parla tanto di giovani
cantautori, anche validi, ma quando si ascolta un cd di De Gregori, Fossati o
appunto Vecchioni, si moltiplicano le sollecitazioni, cosa che non accade con
le “matricole”. Come si spiega?
Forse perché noi vecchi siamo
più complicati, al contrario dei ragazzi. Loro hanno già le risposte, noi abbiamo solo le domande e dunque ci
tocca fare... domande sulle domande. Al di là della battuta,
conta come si è vissuto, alle generazioni che si sono incontrate. Noi
abbiamo avuto delle varianti significative di vita, non è stato un percorso glaciale e unico come per certi
cantautori di oggi: basta solo pensare a cosa è capitato negli
anni Sessanta.
Le sollecitazioni,
nel tuo caso, si sprecano anche per il vestito sonoro che hai dato all’album:
chitarre acustiche, archi, pianoforti, fisarmonica... Insomma, strumenti
“veri”. Una scelta voluta?
È un disco fatto in sala con il sottoscritto che cantava
i motivi a un bravissimo chitarrista, Massimo Germini, e a Lucio Fabbri, anche
lui alla chitarra o al piano, che ha arrangiato l’intero lavoro. I brani sono
stati tutti registrati praticamente così e poi, in un
secondo tempo, abbelliti con altri strumenti in prevalenza acustici. C’è pochissima batteria, proprio in un paio di pezzi più mossi, ma la direzione che si è voluta seguire era questa: trovare dei suoni caldi
senza appesantire le canzoni con esagerazioni o riempitivi inutili.
Il cd si apre con Esodo, in cui dici: “Io
sono là nelle parole greche, dove la fine è il principio”. Viene in mente
Tiziano Terzani, il grande giornalista scomparso, che ha titolato il suo ultimo
libro La fine è il mio inizio.
Certo ci può essere un
collegamento. Gli ultimi suoi libri, che ho letto, offrono spunti importanti
sul superamento del dolore e sulla considerazione che la vita è una specie di giostra su cui si sale, parafrasando il
titolo di un altro suo volume. Di qui nasce la considerazione, forte, che
comunque l’esistenza è un regalo e un
miracolo. Proprio in questo pezzo, ispirato all’“Edipo Colono”, ho tentato di
cantare la vittoria umana sul destino, qualsiasi esso sia, il premio alla
grandezza di essere nati, aver sofferto, aver sognato e capito, e da questo
infine di essere liberi. È un concetto che
riprendo anche in un’altra canzone, Wislava Szymborska, una bravissima poetessa
polacca, che ha toccato spesso questi argomenti.
In Io non appartengo
più
esce il ritratto di un uomo che non si riconosce più in questi tempi.
È una canzone d’accusa verso cose che disumanizzano
completamente la persona. Non è un discorso
nuovo, l’ha fatto anche Celentano, ma credo che l’uomo si stia rovinando
definitivamente: la democrazia non c’è più, si pensa solo a se stessi... Sono cose che mettono
grande tristezza.
C’è una via di
uscita?
Ecco, questo non me lo sono chiesto nel disco perché non vuol essere un disco politico e non propone
scappatoie. È soltanto un quadro vero della realtà che ci circonda, una disamina del crollo della società e del dispiacere che avvenga. In passato, non mi sono
tirato indietro nell’esprimere suggerimenti, qui invece il mio atteggiamento è diverso. D’altra parte, la stessa copertina lo indica:
se sono seduto in poltrona vuol dire che io esamino, ma non offro soluzioni.
Una copertina che
sintetizza, quindi, il tuo attuale stato d’animo...
Sì, è come dire: si è combattuto
parecchio e si combatterà ancora. Adesso,
però, ritengo più importante
pensare all’eternità che a un giorno
solo. Invece noi viviamo giorni e giorni, spesso mediocri, rimandando sempre a
domani... Ci sono cose molto più universali che
varrebbero la pena di essere prese in considerazione, studiate.
Sul ring, intorno a
te, si trovano libri, quadri, vari oggetti...
Sono oggetti di valore eterno, di cui mi circondo in un
momento di riflessione perché non ho più riferimenti, dove pace, verità e giustizia sono sempre volatili. Sento di non
appartenere più a questo mondo moderno, non mi riconosco nel digitale e
allora mi tiro fuori senza malinconia, in modo spassionato: torno al mio amato
umanesimo, nella speranza che contagi l’umanità. Dopo tanti
combattimenti, sul mio ring non faccio salire più nessuno.
Non ti sembra, però,
che i giovani siano più attratti da uno smartphone che da un libro?
Sarebbe sbagliato generalizzare. Ci sono tanti
adolescenti, per fortuna, attenti e sensibili. Certo, il progresso tecnologico
avanza impetuoso e credo se ne sia perso in parte il controllo, ne siano
sfuggiti i contorni. Forse siamo andati più in là di quel che immaginavamo e chi è convinto che solo la velocità conti in questa società, sbaglia di
grosso e se ne pentirà amaramente.
Quando arriverà a trenta, quarant’anni, scoprirà di avere dietro il deserto e non saprà più come nutrire la
propria mente e il proprio cuore. Io sono per i processi lenti, non per quelli
rapidi: voglio mangiare in trattoria, non al self service.
È una generazione
anestetizzata, come dicono in tanti?
Non è colpa loro perché non ci sono stimoli a livello generale. Non c’è aiuto e soprattutto non c’è fiducia. Se fosse in mio potere, ai giovani che mettono
delle idee in piazza, darei la possibilità di svilupparle.
E se sbagliano, un altro paio di occasioni per rimediare.
Un altro tema forte
dell’album è il dolore, cui tutti dobbiamo fare i conti prima o poi. Come si
riesce a superarlo?
È un processo strano: quando il dolore è più vicino, emergono
delle forze interne insospettate. È più pesante, però, quando ad
ammalarsi sono le persone vicine, quelle che ami: eppure, dentro di noi, scatta
una “valvola” che ci sostiene; nei momenti difficili, la natura ti dà questa possibilità. E poi, si pensa
al meglio, mai al peggio.
La religione può
dare delle risposte?
Non vedo perché no. Anch’io, a
tratti, di fronte a delle grandi emozioni ho trovato delle forti risposte nella
fede.