Canzoni al Dente
di Claudio Facchetti Intervista a uno dei cantautori più originali del nostro panorama Canzoni al Dente Si è fatto strada da...
https://www.dimensioni.org/2014/03/canzoni-al-dente.html
di Claudio Facchetti
più
originali del nostro panorama
Canzoni al Dente
Si è fatto strada dalla scena indie con crescente
successo, dimostrando che la qualità paga. Oggi arriva al quinto cd, un
patchwork
di suoni e parole di grande pregio.
“Se Maometto non va alla montagna…”. Il proverbio ben si adatta a Dente, all’anagrafe
Giuseppe Peveri, cantautore tra i più originali degli ultimi anni. Dopo un
lungo e fervido percorso nel sottobosco della cosiddetta musica indipendente,
il suo quinto album Almanacco del giorno prima è stato pubblicato da
una major, la Sony. E
a cercarlo è stata la casa discografica.
Un episodio, questo, che sottolinea la qualità della proposta
dell’artista e il suo successo, cresciuto di anno in anno nel circuito
alternativo, che ha spinto i suoi cd in classifica. Un bel segno di vitalità e di interesse da
parte di un pubblico che non si lascia incantare dalle solite sirene del mainstream, ma cerca qualcosa di
diverso.
E diverso Dente, per vari aspetti, lo è, perché non si lascia
certo incasellare facilmente nel ruolo di “classico” cantautore. O meglio,
durante la sua avventura musicale non si è fatto scappare le occasioni per visitare altri territori. Eccolo dunque
protagonista di reading, conduttore radiofonico, scrittore di racconti per due
libri, dee-jay, autore per artisti come Marco Mengoni, Arisa e Chiara Galiazzo.
Non male per uno che si considera pigro. Adesso comunque l’attenzione ritorna
sul suo mestiere principale, con questo “almanacco” che si sfoglia tra sonorità
vintage e acustiche in un patchwork colorato e riuscito, a sostegno di testi
che giocano con le parole, tra ironia e serietà, quasi un “marchio di
fabbrica”.
Una serie di coincidenze ed eventi fortunati. Fin da piccolo, sono sempre
stato un grande ascoltatore di musica ma, a differenza di tanti miei coetanei,
all’epoca non ho mai preso in mano uno strumento: mi sembrava una cosa troppo
difficile da fare. A vent’anni, però, ho iniziato a suonare la chitarra e a scrivere
subito dei miei pezzi. Sono entrato in una band, La Spina , che mi accompagna
ancora oggi, con cui ho registrato due album. Ho quindi fatto alcuni concerti
da solo, sono andati bene e con mia grande sorpresa ho ricevuto una proposta
per firmare un contratto con l’etichetta indipendente Jestrai. Da quel momento,
ho iniziato a prendere la cosa seriamente. Mi sono detto: “Proviamoci, vediamo
cosa succede”.
Quanto è stato difficile farsi largo?
Non così
tanto come può sembrare, nel senso che ho intrapreso questa strada con una
sorta di disincanto, tanto che ripensandoci oggi non lo spiego ancora. Mi ero
trasferito a Milano per cambiare vita senza pensare alla musica, frequentavo
infatti un corso di grafica. Poi ho iniziato a fare dei piccoli concerti, il
pubblico veniva a vedermi, ho continuato. Certo, si guadagnava poco e accettavo
qualsiasi cosa: ho suonato anche per gli aperitivi, la gente mi passava davanti
con le tartine senza degnarmi di uno sguardo.
Ti stava stretta la band?
A parte il fatto che nel gruppo suonavo solo la chitarra, a starmi
stretta era la mia città, così sono andato via. Con loro, come accennato, avevo
inciso due cd che non erano andati bene e concerti non se ne facevano. Era
insomma un periodo difficile e ho deciso di pensare un po’ alla mia vita.
L’amicizia è rimasta, e infatti oggi mi accompagnano.
Dopo un
felice percorso fatto nell'ambiente alternativo, sei approdato a una major.
Qualcuno avrà storto il naso…
Non penso, anche perché io non ho cambiato nulla della mia musica. Mi
sembra un ottimo segno che non solo la mia, ma anche altre grosse case
discografiche si aprano a queste realtà senza pretendere di modificare
qualcosa. Hanno capito, con parecchi anni di ritardo, che molti artisti
funzionano senza essere per forza commerciali. È un interesse che può solo
aiutare a far crescere l’ambiente, e non a caso tanti miei colleghi stanno per
uscire con una major.
C’è un tema
ricorrente nel tuo cd, che è il tempo, richiamato anche nel titolo. Un’idea
voluta?
Quando scrivo non penso mai a un argomento preciso, tuttavia, una volta
riascoltato il disco, mi sono accorto che ritornava il tema del tempo che
passa, sulle cose che si sono fatte ma soprattutto sulle cose che non si sono
fatte. Così mi è venuta in mente l’idea di questo archivio di eventi che
potevano accadere, una sorta di almanacco del passato, dove ci trovavi le
previsioni dell’anno non solo scientifiche, ma anche un po’ bislacche. Il
titolo è stato quasi una conseguenza logica, che poi è un ribaltamento di una
frase fatta, come da mia tradizione.
Non solo il titolo, ma anche i testi contengono spesso gustosi giochi di
parole. Come li costruisci?
La
maggior parte di essi sono istintivi, alcuni scritti di getto, magari quando
sono per strada, mi è capitato di buttarli giù anche in cinque minuti. Altri
nascono da un’idea che elaboro un po’ di più. Comunque, fanno parte del mio
dna, nella vita di tutti i giorni sono abituato a parlare così. Bado molto,
invece, a non scrivere cose che mi sentirei uno scemo a cantare.
Sono testi autobiografici o più
da osservatore del mondo?
Sono molto personali, sia perché sono uno scarso osservatore e sia perché
non riesco a trovare ispirazione all’esterno. Le cose devo “sentirle” in prima
persona.
Sotto il
profilo musicale, i brani hanno sapori diversi e intensi: vintage, pop,
atmosfere anni ’60…
Durante la scrittura delle canzoni, avevo già in mente quali suoni usare,
sentivo soprattutto che volevo poca elettricità e strumenti veri, anche
particolari, come il clavicembalo o il contrabbasso. Sono molto soddisfatto del
risultato, perché è riuscito in sostanza come me lo ero immaginato.
Oltre a essere cantautore, hai anche altri interessi, da conduttore
radiofonico a dee-jay. Per vincere la noia?
In realtà, sono molto pigro e quando mi snocciolano tutte le cose che ho
fatto, mi sorprendo sempre un po’. Sono collaborazioni che non mi verrebbe mai
in mente di fare, ma che mi vengono richieste. Alla fine, non dico di “no”, e
mi piace anche farle, ma… devo esserci costretto. Il dee-jay invece è un modo
per ascoltare la musica che mi piace al di fuori di casa mia. Nei miei set,
metto dischi ballabili italiani degli anni ’60 ed è molto bello, nelle serate
giuste, vedere la gente scatenarsi sui brani di Rita Pavone o Edoardo Vianello.
Hai composto pezzi per altri artisti, come Mengoni, Chiara, Arisa.
Cambia, in questi casi, il tuo modo di scrivere?
Sì. Per Marco, ho scritto il testo di Mangialanima
sulle musiche di Paolo Nutini, che io non canterei mai.
Per Chiara il pezzo lo avevo già nel cassetto, ho solo fatto qualche
piccola modifica per renderlo più pop. Diverso il discorso con Arisa: mi ha
proprio chiesto un brano e l’ho composto pensando che l’avrebbe cantato lei. È
stata la prima volta e pensavo di non riuscirci. Invece l’ho scritto quasi di
getto, è andata bene. <