Chiodini cult
di Leo Gangi Un’azienda che non conosce crisi L'ad Stefano Quercetti Chiodini cult Quando l’industria ha un chi...
https://www.dimensioni.org/2014/03/chiodini-cult.html
di Leo Gangi
Un’azienda
che non conosce crisi
L'ad Stefano Quercetti |
Chiodini cult
Quando l’industria ha un chiodo fisso: divertire i
bambini di ogni età.
Il modello Quercetti.
Portare il made in Italy in tutto il mondo è
un… gioco da ragazzi. Soprattutto se a farlo è la Quercetti & C SpA, società leader a livello mondiale nel
settore giocattoli – per l’appunto – che ha ormai superato i sessant’anni di attività.
L’articolo più
famoso sono i
chiodini, spilli in
plastica a sei colori da inserire in una tavola bianca e vuota, per vedere
passo dopo passo l’immagine che si crea. Il risultato è uguale a una foto
scattata da una macchina digitale. Solo che in realtà è fatto a mano.
Meraviglia per un bambino che impara a rendere concreta la fantasia. Chic per
l’adulto-artista che si cimenta con la pixel art,
l’ultima evoluzione del prodotto: con soli sei colori si realizzano tutte le
sfumature che la mente è in grado di concepire.
Così, i chiodini si sono trasformati da semplice divertimento in oggetti cult. Ma non sono che una
delle chicche di questa fabbrica di sogni. Noi di Dimensioni Nuove siamo andati a
Torino, dove si trova la sua sede, per intervistare l’ad Stefano Quercetti.
Siete
riusciti ad esportare i vostri prodotti anche in Cina. Ma come fate?
Sa che non lo
so? (sorride) Il gioco è cibo per la mente. È un elemento
essenziale della crescita di una persona. A pensarci bene, in natura è così per
tutti i cuccioli; il cucciolo d’uomo non fa eccezione.
Sì, però
oggi i giovani sono “nativi digitali”. Come fa allora un gioco manuale come
quello dei chiodini a resistere alla concorrenza e al tempo?
Che i giovani
abbiano una predisposizione naturale a tutte le apparecchiature elettroniche è
un dato di fatto, incontrovertibile. Ma rimangono le altre caratteristiche del
giocattolo: poterlo toccare, capire come funziona, associare colori,
movimenti... e quanto in realtà costituisce la base della cognizione del
bambino e della curiosità dei più grandicelli. Un aspetto che non cambierà mai.
Come si
conciliano le nuove tecnologie e la tradizione? Ci sarà un chiodino digitale?
In realtà c’è
già. Stiamo lanciando sul mercato delle app per smartphone. Ma il punto è un
altro: la manualità stimola altri fattori nella mente del bambino, e anche dei
ragazzi. Elettronica e concretezza non si escludono ma si completano.
Stefano, Alberto e Andrea Quercetti. |
Siete tre
fratelli nella stessa azienda: lei, Alberto (prodotto) e Andrea (export). Com’è
il rapporto tra voi? Da piccoli giocavate assieme?
Abbiamo tre
personalità differenti. L’accordo lo troviamo ogni volta, anche se non è sempre
facile. Ci aiuta il fatto che fin da bambini ci divertivamo insieme. Ci piaceva
ad esempio “fare la lotta”: io sono il più piccolo, e ovviamente ero il più
“massacrato”. Oggi Andrea, il più grande, si occupa dell’export.
Alberto è
quello di mezzo ed è il più creativo, quello che ha le idee sui giocattoli. Io
mi occupo della parte tecnica, l’amministrazione e il personale.
Alla base
del gioco c’è la creatività non solo di chi lo usa ma anche di chi lo produce.
Come si può tradurre oggi l’importanza dell’idea?
È un elemento
estremamente complicato. Sembra sempre che qualsiasi cosa sia già stata
inventata. In realtà, gli spunti possono arrivare da qualsiasi cosa. Bisogna
sapere osservare ed elaborare. Un aneddoto: tutti conoscono la pista delle
biglie che si fa in spiaggia. Impegnati in una gara con i nostri figli, ci
siamo chiesti: ma perché non portare questo gioco dentro una casa? Lo abbiamo
fatto, è stato un successo.
Per essere game maker bisogna avere un’attitudine specifica o
basta semplicemente studiare?
Bisogna avere
un’attitudine specifica. Non ci sono corsi che insegnino ad essere veramente
creativi. Al massimo, raffinano le capacità.
Quale
consiglio darebbe a una persona che si volesse lanciare nel campo?
Devi essere mosso da una passione sconfinata. Il resto si impara
facendolo.
In Italia il nostro settore è
stato massacrato. Molti grossi brand sono scomparsi. Dai 47.000 addetti che eravamo
nei primi anni ’60 siamo rimasti in 4.000. Nemmeno il 10%.
Hanno pesato
molto la delocalizzazione e il venir meno della ricerca, preferendo comprare
cose già fatte. Un passo falso, perché oggi ci sono molti più competitor, a
livello internazionale.
Torniamo alla domanda iniziale: voi fate concorrenza ai cinesi nella loro
patria…
È vero, forniamo aziende cinesi e conserviamo una nostra nicchia
importante anche in USA. Ma questo grazie all’insegnamento di nostro padre:
utilizzare risorse e addetti soprattutto nella progettazione, studiata nei
minimi dettagli, automatizzando al massimo il resto. Questo in linea teorica.
Poi interviene il “sistema Italia”, con imposte elevate e costi altissimi sulle
forniture energetiche. Noi però manterremo le radici nel Belpaese. Negli anni siamo riusciti a creare una competenza
specifica dei nostri lavoratori, un know how interno che per noi è molto
prezioso, e che non intendiamo perdere.
Come vede
il futuro?
Roseo. In un
mondo in crisi, al di là del “sistema Italia”, i giocattoli sono ovunque in
incremento. Accade per la consapevolezza che il gioco è utile al bambino per
vivere, come il pane.
Cosa vuol dire essere imprenditori oggi? Quanta
vita le prende e quanta energia le dà?
Posso dire questo: mio padre, il fondatore, in realtà aveva quattro
figli: noi tre e l’azienda. L’impresa non sono solo macchinari o prodotti, ma
anche persone che contano su di te. Per questo devi dedicargli tutto il tempo
necessario. Sono qui da 24 anni; conosco i nomi dei miei collaboratori uno per
uno, e loro conoscono il mio. La centralità del rapporto umano per noi è un
valore aggiunto. La famiglia lo capisce, e poi il tempo per rilassarsi con i
propri cari si trova.
Mentre
parliamo, vedo che fa girare alcune biglie fra le dita. È un caso o
un’abitudine?
Mi aiutano a
riflettere. Sono fatte di un materiale particolare. Lei non ha idea della
tecnologia che c’è dietro. Che vuole, anche produrre qui è un gioco. Lo
facciamo seriamente, ma con il sorriso. Sennò, che divertimento c’è? <