W la pappa col pomodoro
W la pappa col pomodoro Drammatiche carestie e problemi di obesit à , colture biologiche e agromafie, montagne di cibo ...
https://www.dimensioni.org/2014/03/w-la-pappa-col-pomodoro.html
W la pappa
col pomodoro
Drammatiche
carestie e problemi di obesità,
colture
biologiche e agromafie,
montagne
di cibo sprecato
e mense
per i poveri.
Mangiare
è anche un grande affare.
Il
cibo del futuro
Che sarebbe stato il cibo del futuro la NASA l’aveva già capito nel 1975, quando inserì la quinoa nella
dieta tipo di un astronauta in missione spaziale. Carica di tutti gli
amminoacidi essenziali, ricca di minerali e proteine, in quegli anni di corsa
verso la Luna ,
sembrava il prodotto
perfetto da portarsi
in orbita al posto dei cibi liofilizzati e sottovuoto. Non andò così e gli astronauti si mangiarono (e si
mangiano ancora) strani preparati, ma il lancio della quinoa era ormai
compiuto.
La Quinoa cibo per gli astronauti? |
E pensare che prima del boom a livello
mondiale, le piante rossicce della Chenopodium quinoa wild (questo il nome
ufficiale) sono state coltivate in silenzio per 5000 anni dai popoli delle Ande. I primi a scoprirne le potenzialità furono gli Inca che la chiamavano
addirittura “madre di tutti i semi”. Poi, dalla prima piantagione tra Bolivia e
Perù, la
quinoa si è estesa in tutta la regione.
E ora che l’alimentazione mondiale guarda
ai prossimi anni quando rischieremo di essere troppi e affamati, anche i nutrizionisti la recuperano, col risultato che se ne
sente parlare ovunque. Tanto che l’ONU ha dichiarato il 2013 anno della quinoa,
sottolineandone il potenziale dietetico e la sua sostenibilità.
Purtroppo però il successone della quinoa non ha risolto
la piaga della fame. Infatti quasi tutto il raccolto viene esportato nelle cucine di mezzo mondo, e il poco che rimane in America Latina
(il 10% del totale) non basta. Risultato? Un paradosso: sulle Ande s’importa e
si cucina la pasta; mentre noi occidentali mangiamo quinoa! Sì, perché per ora la quinoa si coltiva solo qui...
Pare che sia difficile impiantarla altrove, anche se alcuni ricercatori di
Dubai ci stanno provando, selezionando le varietà migliori
per il clima dell’Arabia.
Tra i manicaretti di domani c'è una grande varietà di insetti |
Il magico ritrovato però non piace a tutti e sul web la satira
infuria: un blog canadese ha trovato 5 ragioni
per odiare la quinoa, tra cui il nome poco british, il suo aspetto disgustoso e
pure la difficoltà a togliersela dai denti (se non con 12 m di filo interdentale!).
Ma i nemici della quinoa non sono gli
unici che cercano nuove pietanze da mettere in tavola. La FAO , l’organismo Onu che si
occupa di agricoltura, da anni incoraggia un menù a base... d’insetti. Nessuna meraviglia, visto che già in Congo e in Repubblica Centrafricana si
mangiano vermi con polenta, in Uganda locuste fritte e in Camerun e Angola addirittura
grilli.
L’idea un po’ balzana nasce dalla presa d’atto
che fra 40 anni sul pianeta saremo 9 miliardi
e la carne non basterà più: ecco dunque gli insetti, economici, gustosi, ma anche
proteici e salutari. Inoltre così facendo risparmieremmo l’uso dei terreni
agricoli e dell’acqua oggi usati per l’allevamento di animali.
Insomma, chissà se davvero le cavallette salteranno nel
nostro piatto... La questione è tanto seria che un team di esperti sta verificando le oltre mille specie commestibili come alternativa alle nostre cattive
abitudini alimentari.
Quanto
si spreca!
Gli italiani gettano via 75 kg di cibo a testa all'anno. Cioè un quarto del carrello della spesa di ogni settimana. |
Sì, perché anche se ci lamentiamo della crisi, noi
italiani buttiamo via 76 kg di cibo a testa all’anno. Cioè, un quarto del carrello della spesa, per
un totale di 7 euro settimanali a famiglia. La nostra cara Italia in recessione
si gioca così 8 miliardi
di euro, ovvero
il doppio della contestatissima Imu sulla casa. Vero: alcune tonnellate marcite
vengono dalla grande distribuzione, ma la metà resta cibo scartato dalle famiglie.
Su questo punto il rapporto sullo spreco alimentare dell’anno scorso non fa sconti, gli
sciuponi sono tanti e diversi. I migliori gettano solo cibo ammuffito,
cestinando comunque 4 euro settimanali. A seguire, chi non conosce bene le
cause dello spreco (ma non sarebbe ora d’informarsi?), i menefreghisti e i
patiti di frutta e verdura super-fresca.
Chi non mangia roba riscaldata e i cuochi
esagerati riempiono così il sacchetto dell’umido con pasta e pane, ma anche carne o
costoso pesce. Le famiglie piccole attratte dalle maxi-confezioni buttano nel
bidone più di 9,5
euro settimanali, mentre il titolo di sprecone Doc va all’accumulatore ossessionato dal frigo
pieno modello “carestia
imminente”, tipologia che ritrae il 9% degli italiani.
Secondo la statistica i grandi spreconi
sono maschi, giovani, laureati e residenti in città; mentre a tirare la cinghia sono
pensionati, donne con bassa scolarità e persone per lo più disinformate... Un ritratto in perfetta
linea con l’abominio mondiale fotografato dalla FAO, secondo cui i cinque
continenti mandano al macero 750 miliardi di dollari, cioè il Pil di Turchia e Svizzera insieme.
Mica briciole. La sensibilizzazione
continua, ma non basta a svuotare il sacco. Si pensa allora a una doppia etichetta sui prodotti: la prima con la data di
vendita (l’odierna “da consumarsi preferibilmente entro”), l’altra con la
scadenza vera e propria del cibo. In più, oltre alla pratica della rotazione dei
prodotti in frigo per rinfrescarsi la memoria, torneranno utili i ricettari salva-scarti delle nonne, ricchi di idee per consumare
anche le dure foglie dei carciofi o gli “inutili” ciuffi di carote.
Un
piatto caldo
Resta proprio tanto da fare, anche perché quest’anno i tradizionali aiuti dell’UE
agli affamati europei rischiano di essere ridotti a un terzo. Un bel problema
per le associazioni caritatevoli che sfamano il 70% dei bisognosi alle porte di casa nostra e nelle nostre città.
Per rimediare, una recente legge ha
rafforzato la norma 155 del 2003 detta del “buon samaritano”, che regolamenta il recupero e la distribuzione gratuita a poveri (tramite fondazioni no profit)
di alimenti cotti e freschi provenienti da mense ospedaliere, scolastiche e da
grandi produttori, non più vendibili per difetti di packaging o per scadenza imminente ma
ancora commestibili. Una norma intelligente, promossa da una mamma qualunque,
che era rimasta sconvolta dalla quantità di cibo sprecata nella mensa scolastica della
figlia. Una delle tante campagne della fondazione Banco Alimentare per la raccolta di generi alimentari da distribuire ai bisognosi. |
Una spinta importante fu data anche dalla Fondazione Banco Alimentare, associazione nata nel 1989 per volere di
don Luigi Giussani e di Danilo Fossati, fondatore del colosso alimentare Star,
e oggi attiva a livello nazionale come fornitore principale di 8800 strutture caritative. Ma l’obiettivo è azzerare gli sprechi ancora elevatissimi
di industrie e famiglie.
Sì: grazie ai nostri scarti qualcuno mangia.
Succede ogni giorno nelle mense
dei poveri d’Italia,
alle cui porte bussano in molti per un piatto caldo. Certo, alcuni sono
stranieri, ex badanti o muratori rimasti senza lavoro, ma la maggioranza è italiana: tanti genitori disoccupati o
cassintegrati con figli piccoli, neomamme sole e laureati senza contratto, con
qualche lavoretto saltuario se va bene.
Gli “indigenti alimentari” italiani dal 2010 sono aumentati del 47%. Tanti, tantissimi. Gente in difficoltà che viene alla mensa con un po’ di
vergogna tipica di chi non è abituato a chiedere.
Extralarge
D’altra parte a gonfiarsi a
dismisura è anche il numero delle persone in sovrappeso. Quelli della cintura
allentata e delle taglie conformate sono l’altro lato della medaglia, in
preoccupante ascesa con il loro miliardo e mezzo di associati. Per i medici questi oversize non
sono ancora obesi, definizione che scatta quando l’indice di massa corporea
(BMI) supera il limite di 30.
Il cibo spazzatura è tra le cause dell'obesità. il 10% della popolazione mondiale è sovrapppeso |
In trent’anni gli obesi sono
comunque raddoppiati (oggi costituiscono il 10% della popolazione mondiale),
hanno problemi di salute e bassa aspettativa di vita. La genetica conta, ma
poco; la patologia dipende più da abitudini alimentari e
sociali,
tra cui il consumo vorace di grassi e i lavori troppo sedentari.
Alleggerire i chili degli
interessati importa anche allo Stato che vedrebbe volentieri “dimagrite” le
spese sanitarie degli obesi che pesano molto sulla nazione. L’Asl di Asti ad
esempio da due anni ha inaugurato i “gruppi di cammino”, combriccole che prevengono
il problema con una dose giornaliera di passeggiate. A costo zero. Come la
proposta di abbassare la temperatura dei caloriferi a 19 °C per far bruciare al
corpo più calorie per scaldarsi.
Rimedi insufficienti però
per gli obesi gravi, per i quali la ricerca sta testando di tutto: da un
brodino di batteri che dimezzerebbe il peso al primo sorso, a un microchip
impiantato sottopelle per sopprimere l’appetito vorace. Tutte idee che
suscitano scetticismi, soprattutto nelle grandi aziende alimentari che da anni
approfittano delle strategie
di marketing
per riempire fino all’orlo soprattutto i piatti dei più
piccoli.
Sì,
perché il dramma dell’obesità infantile è
una piaga del millennio, ma un grande affare per le industrie che hanno assunto esperti in
pubblicità per l’infanzia. Col risultato che spesso i bambini riconoscono
un logo alimentare prima del loro stesso nome.
A ingozzarsi di cibo spazzatura si comincia da
piccolissimi, prima dei 5 anni. Senza attività fisica i chili dei bambini
aumentano in fretta, ma i genitori non sembrano preoccuparsene. In America –
uno dei Paesi più in carne – il tragico panorama
è finito anche su Time Magazine, immortalato in scatti artistici
dal fotografo Andy Richter.
Ma anche in Italia non ce la
passiamo meglio: con le dovute differenze tra regione e regione (ultima la Campania , prima la Toscana ), in una classe
tipo di 25 alunni 2 sono obesi e 5 troppo pesanti. Una situazione dalle
controindicazioni gravi, come nella recente storia di un bambino di 7 anni,
primo caso provato di malato di tumore al fegato perché obeso.
A riempire meno e meglio la
pancia ci hanno provato delle classi dell’hinterland milanese, che aumentando il consumo di frutta e
verdura e sostituendo gli snack delle macchinette con prodotti freschi,
hanno fatto passi da giganti. Tanto che forse l’università di Harvard seguirà il loro esempio.
Intanto sei medici del North
Carolina hanno fatto scorpacciata dei film per ragazzi degli ultimi 7 anni per scovare quelli che
inducono alla sedentarietà e a mangiar male. Nella
lista nera ecco dunque cartoni tipo Ratatouille, Up e Cattivissimo me, ma anche
film come Una notte al museo o Harry Potter, colpevole di contenere molto cibo
spazzatura e bevande gassate. Insomma, anche per Kung Fu Panda e Shrek sembra
finita l’ora delle abbuffate.
Col cibo si mangia
Oggi in agricoltura si parla sempre più di biologico e sostenibilità, con un mercato in costante ascesa |
L’appetito vien mangiando?
Sembrerebbe di sì, visto che saranno sempre
di più quelli che mangeranno facendo mangiare gli altri. Purché l’ingrediente segreto sia green. Le ricerche segnalano infatti che le eccellenze
italiane sono per lo più ristoranti guru degli ambientalisti e a km zero, ovvero fan
dei prodotti della zona e di stagione, che evitano trasporti e imballaggi. E
non stupisce affatto, dato che il mercato del biologico e degli alimenti di alta
qualità è uno dei pochi in crescita.
Ormai anche in agricoltura
si parla di biodinamico e sostenibile, e forse è per questo che anche i
giovani sembrano avere trovato pane per i loro denti... Si stima che a breve si
recupereranno
tutte le braccia che negli ultimi 10 anni sono scappate dai campi per inseguire
un posto dietro una scrivania. Insomma, ci si aspetta una generazione senza
paura di sporcarsi le mani, ma scordatevi la chimica pesante e l’uso di
sostanze inquinanti; gli agricoltori 2.0 saranno bio, internazionali e
multitasking.
D’altronde lo dimostrano i
frequentissimi viaggi alla scoperta della terra di centinaia di giovani
occupati nel settore primario. Una sorta di Erasmus alternativo di 6 o 12 mesi,
per imparare tecniche di vinificazione o metodi di concimazione naturali. Come i loro
coetanei universitari, gli under 30 guardano all’America o all’Australia, perché ormai l’esperienza del nonno contadino non basta più. Stage retribuiti in Sud Dakota a raccogliere cereali, oppure a
Washington a fare i giardinieri.
Attenzione: anche per andare
sul campo è ormai indispensabile l’inglese! Ma ne vale la pena, per
avere uno sguardo un po’ più ampio sui mercati e le
innovative strategie di business straniere; un giovane contadino del Nebraska,
laureato in economia, ha reso autonomo il suo trattore installandoci
addirittura un gps.
E anche qui da noi i vignaioli delle
Langhe, patria del Dolcetto e del Barolo, hanno invertito la rotta. Come dei
novelli Colombo, ma senza caravelle, in molti si sono diretti in terre ancora “inesplorate”
dal vino piemontese. Dimenticato il mercato tradizionale europeo e americano,
ormai in drastico calo per via delle mutate abitudini alimentari, hanno puntato verso Nord. E hanno davvero scoperto l’America!
Perché in
Norvegia e Groenlandia il pregiato vino italiano piace proprio, tanto che sono
già state
vendute parecchie bottiglie.
Dunque sfidare i ghiacci pur di far degustare il proprio vino al palato scandinavo vale la pena, ma da
adesso il grosso degli ordini si farà online. Anche perché c’è già chi è impegnato in nuove “conquiste”
enogastronomiche in Oriente e persino in Ghana.
Il “tarocco”
E che con il cibo si fanno
affari d’oro lo sanno bene anche i gruppi di criminalità organizzata, le cosiddette “agromafie” specializzate in traffici alimentari
che fruttano miliardi. Pur di guadagnarci, la frode gastronomica inietta
sostanze che rendono i prodotti appariscenti, modifica la struttura degli
alimenti e ne altera i sapori con materie prime scadenti.
Nascono così le mozzarelle sbiancate con il perossido di benzoile o la salsiccia
arrossata dall’anidride solforosa, i mirtilli con l’epatite e il pesce spalmato
di botulino. Insomma, non proprio prelibatezze. E visto che a rimetterci è la salute pubblica, i controlli aumentano, tanto che in alcune
città (come Torino) sono nati pool di magistrati specializzati che
intercettano i dirigenti di aziende sospette.
Spesso è coinvolta anche la grande distribuzione ai supermercati,
direttamente per infiltrazioni mafiose oppure tramite sistemi di tangenti. Si
corre ai ripari, se non altro per organizzare la tracciabilità dei prodotti, nuova frontiera a tutela dei consumatori.
Occhio però, non sempre “taroccare” un prodotto è considerato illegale. Esatto: il merito è nostro che in vent’anni abbiamo
praticamente svenduto
a industrie straniere i
grandi marchi culinari made in Italy. È successo con l’industria dolciaria come
con il settore dell’olio, che vale qualcosa come 2 miliardi di euro.
Da quando le multinazionali si sono
impadronite dell’extravergine, l’hanno spremuto ben bene: tanto che oggi l’Italia
resta il primo rivenditore al mondo, ma il colosso produttore è la Spagna. Risultato ?
Sugli scaffali ci troviamo sempre i nomi degli antichi frantoi toscani, ma
nella realtà ci beviamo una
miscela d’origine industriale prodotta in Tunisia, Grecia o Marocco (che è indicata sull’etichetta, ma ben in
piccolo).
Ovviamente non rimane nulla dell’antico metodo di confezione: oggi le
olive si raccolgono, si stoccano, vengono addensate e corrette, e solo dopo un
bel viaggio per mare e per terra arrivano sullo stivale, dove l’olio s’imbottiglia
e si etichetta. E le conseguenze si possono immaginare, il prezzo al pubblico è concorrenziale ma a pagare è la qualità. Insomma, un bel boccone amaro da mandare
giù.
A rimetterci le seimila produzioni agricole nazionali, quelle che credono
ancora nella filiera corta, che però lottano quotidianamente con il prezzo
imposto dai giganti stranieri col monopolio su tanto olio italiano. Per questo
dal 2014 partirà una campagna – sponsorizzata dal Ministero delle politiche
agricole – sulla
qualità dell’extravergine nei supermercati per cercare di ridare sapore almeno a una
delle nostre specialità. L’obiettivo è rinsegnare agli italiani la differenza tra un olio da 2 euro e
uno che per i costi di produzione non può andare sotto i 6.
La buona notizia è che pare che l’aumento della materia prima e il calo dei consumi siano entrati a
gamba tesa anche sui giganti stranieri, che potrebbero rimettere sul tavolo
proprio i nostri cari marchi... Interessati a metterci le mani però sono pure i cinesi, gli unici che di
questi tempi non hanno il portafoglio magro.
La politica del cibo
Insomma,
il cibo è
proprio un bel problema. Lo sa bene la Ferrero , storica azienda italiana produttrice di
dolciumi. L’anno scorso, approdata in Gran Bretagna, scelse di differenziare
per colore ‒ rosa alle femmine e blu ai maschi ‒ i suoi celebri
ovetti, se non altro per orientare meglio le sorprese nascoste dentro.
Collanine in quelli rosa e soldatini in quelli blu, per intenderci.
Tanto bastò per scatenare il putiferio: il movimento inglese Let
toys be toys parlò addirittura di
discriminazione e di sessismo lasciando presumibilmente allibita la
controparte.
Ma altrove della
questione alimentare si occupa direttamente la magistratura: come nel caso di
un detenuto di credo buddista a cui è stato negato, oltre
alla visita di un maestro zen, pure la dieta vegetariana. Alla fine la Cassazione gli ha dato
ragione; difficile invece dire come si esprimeranno i giudici sul caso del
suocero che ha querelato la nuora perché cucinava male gli
agnolotti... Una disputa che c’è da presumere abbia
messo in mezzo più
cuochi che avvocati. Un’esasperazione certo, ma quando si parla di mangiare
nessuno è
escluso. Nemmeno la politica.
Il cibo è al centro di grandi interessi economici. Non sempre legali. |
Lo
dimostrano le botte che si son tirate qualche anno fa i due schieramenti del
consiglio comunale di Rimini per guadagnarsi il monopolio della piadina
alla nutella.
Fa sorridere, ma per
alcuni è questione serissima. E niente meno che
il maestro indiscusso della cucina francese Curnonsky si prodigò sul finire degli anni ’50 proprio nel segnalare i
piatti di destra e quelli di sinistra: la cucina nazionale era roba “fascista”
da consumarsi esclusivamente nelle ambasciate e nei grandi alberghi, mentre le
tradizioni regionali restavano alla destra borghese e moderata.
Un menu alla gauche
prevedeva quindi un’omelette, una coscia di coniglio o un trancio di
prosciutto: purché fosse roba semplice
e svelta. Il “dimmi cosa mangi, ti dirò chi voti” resta indubbiamente più difficile per il panorama politico italiano...
Forse perché da noi è tutto un
minestrone.