Diamo spazi ai creativi

lavoro di Carlo Mantovani Proposte semplici e concrete Diamo spazi ai creativi Ne parliamo con Giovanni Campa...



lavoro


di Carlo Mantovani


Proposte semplici e concrete
Diamo spazi ai creativi
Ne parliamo con Giovanni Campagnoli, laureato alla Bocconi, docente di economia in un una scuola salesiana,
direttore e blogger della rete informativa Politichegiovanili.it.

        Disoccupazione giovanile al record storico (44%!) e invio del curriculum diventato ormai una slot machine mangiatempo (il massimo che si può sperare, è che finisca nel cestino giusto) sembrano dati inequivocabili che colorano ogni tentativo di amaro pessimismo.
Ma sentire qualcuno che propone di recuperare gli spazi vuoti per trasformali in occasioni di lavoro per chi ha finito la scuola e cerca un lavoro, è come trovare l’acqua nel deserto, o sentire un congiuntivo in televisione. Contattare Giovanni Campagnoli, insegnante di economia nel Liceo Salesiano di Borgomanero (NO), esperto di politiche giovanili ed autore di Riusiamo l’Italia: da spazi vuoti a start-up culturali e sociali, e fargli alcune domande, è stato quindi un “no brainer”, come dicono negli USA: una mossa scontata, dettata da una sorta di obbligo morale verso il futuro. 

Viste le drammatiche conseguenze del consumo di suolo, era ora che qualcuno proponesse di recuperare gli spazi vuoti. Come è iniziata l’avventura di Riusiamo l’Italia?
Io vengo dal mondo delle politiche giovanili e a segnalarmi che il riuso degli spazi vuoti poteva essere una grande opportunità, in un momento in cui il dialogo con le istituzioni era bloccato, sono stati proprio i ragazzi e le ragazze che incontravo in giro per l’Italia. Dimostrando che ad una nuova idea di lavoro si poteva arrivare anche senza scendere in piazza, al di fuori della solita logica rivendicativa: sostenuti soltanto da talento creativo e dalla volontà di realizzare un progetto. Da questo prezioso input è nata l’idea del libro Riusiamo l’Italia. Il modello gestionale mi era chiaro, l’ipotesi economica era molto semplice: favorire un incontro tra spazi abbandonati e giovani creativi disoccupati. Un’idea che è piaciuta subito a quelli de Il Sole 24 ORE, convinti che meritasse la pubblicazione. L’interesse intorno a questi argomenti si è dimostrato piuttosto alto in tutto il Paese: il libro è stato presentato già in più di trenta città, da Corleone a Trieste, da Torino a Taranto. Oltre agli inviti di tante università e, ovviamente, delle prestigiose presentazioni al Festival dell’Economia di Trento  e della Letteratura di Mantova.  E non c’è solo teoria.
Sul tema degli spazi sono stati attivati anche numerosi percorsi formativi: sperando che siano il primo decisivo passo verso una piattaforma capace di favorire l’incontro tra spazi vuoti riusabili e giovani riutilizzatori.

Riusiamo for dummies: che cosa deve fare, in pratica, un giovanotto che volesse dar vita ad una di queste virtuose start-up?
Sembra banale, ma parte tutto dal desiderio di realizzare un progetto. Una volta individuato uno spazio, individuate le nuove funzioni d’uso che lì si possono sviluppare, si calcola un budget minimo e si parte. Qui cominciano le difficoltà, rappresentate dagli ostacoli della realtà: dall’accesso al credito al rapporto con le istituzioni e la burocrazia, al consenso sociale al riuso. Insomma: il cammino è tutto in salita ed è probabile che, inizialmente, ci si debba scordare lo stipendio. Oltre all’idea creativa, servono quindi anticorpi molto efficaci, per potercela fare. Esperienze concrete ce ne sono già tante e le più significative sono raccolte sul nostro sito, www.riusiamolitalia.it.

Cosa si può trovare?
C’è davvero di tutto: spazi culturali di aggregazione giovanile e di formazione, sale prova, music club, sale cinematografiche, gallerie per esposizioni, street market, orti e serre sociali, sport indoor e così via. L’azione del riuso dipende sia dalle caratteristiche degli spazi a disposizione, sia dalle passioni che animano il team di utilizzatori. La prima mossa da fare, per chi volesse intraprendere l’avventura del riuso, è andare a parlare con chi lo ha già fatto: l’esperienza degli altri è il modo migliore di imparare.

Uno dei vostri slogan è «Più usi, meno paghi»: che cosa significa?
Significa basare le imposte sull’uso dei beni e non sulla semplice proprietà. Abbassando le tasse per i proprietari di beni che vengono usati, e alzandole per chi invece ne blocca la circolazione, lo Stato potrebbe favorire il riuso di beni e spazi vuoti. Una manovra che, a ben pensarci, conviene a tutti: se la proprietà perde la sua “funzione sociale” e viene immobilizzata, è l’intero Paese a perderci. Una strategia molto semplice ed efficace, purtroppo non abbastanza diffusa.

Nel nostro Paese si parla sempre dell’importanza della creatività, ma poi, quando qualcuno tenta di fare qualcosa di creativo, gli chiudono la porta in faccia. I vostri progetti, in media, che accoglienza hanno avuto?
Essendo fonte di innovazione, la creatività risulta fondamentale per uscire dalla crisi: stando alle analisi di mercato, infatti, la disoccupazione colpisce prevalentemente le professioni ripetitive, che però sono ancora la grande maggioranza (75%). Ecco perché il nostro Paese dovrebbe fare di tutto per favorire la creatività, mettendo a disposizione delle idee creative gli spazi inutilizzati, assicurandosi però che possano essere fruibili in tempi rapidi: la nostra esperienza dimostra che progettare un’attività per uno spazio utilizzabile soltanto dopo alcuni anni significa condannarlo al fallimento: perché i ragazzi lo abbandonerebbero per provare qualcos’altro. E l’Italia, in questo momento storico, così difficile, non può permettersi il lusso di perdere un’intera generazione di creativi: dagli ingegneri gestionali agli hair stylist, dai digital laureati in informatica, ai makers indipendenti. 

Un giorno, anche grazie a queste buone pratiche di riuso, il nostro Paese riuscirà a dare una risposta alla piaga della disoccupazione giovanile?
I dati che emergono dalla mia ricerca dicono che in Italia gli spazi vuoti superano il milione e mezzo. E che sarebbe sufficiente riusarne anche solo una minima percentuale (dall’1,5 al 3 %), affidandola a gruppi di ragazzi che hanno presentato progetti creativi, per ridurre la disoccupazione giovanile dal 5 al 10%. Una rivoluzione dal basso, insomma, che produrrebbe soltanto effetti positivi (lavoro, spirito civile, inclusione). Non estirperebbe la piaga della disoccupazione, è chiaro, ma non sarebbe il caso di spezzare l’immobilismo e provarci?

Lei è un insegnante: nelle scuole si fa abbastanza per diffondere la mentalità del riuso e garantire un futuro al Paese?
Da anni si dice che la scuola, oltre alle conoscenze, deve insegnare anche le competenze fondamentali: che secondo l’UE sono otto e comprendono anche quelle creative e imprenditoriali valorizzate dal nostro Progetto, Riusiamo l’Italia. La scuola pubblica italiana, purtroppo, è impostata per creare dipendenti, non manager. Lo dimostra la pedagogia nazionale, basata più sulla prudenza che non sul coraggio: e così, nelle letture scolastiche, si sceglie Cappuccetto Rosso, che educa all’obbedienza, invece di Tom Sawyer, o Pippi Calze Lunghe, che invece sottolineano l’importanza di accettare le sfide e di coltivare la creatività. Solo insegnando i valori del rischio e dell’innovazione – e alcune scuole, fortunatamente, iniziano a farlo – potremo avere generazioni di nuovi imprenditori, come quelli delle start-up che danno nuova vita agli spazi vuoti del tessuto urbano. <

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