Un viaggio incredibile - Enrico Ruggeri
musica di Claudio Facchetti A tu per tu con Enrico Ruggeri Un viaggio incredibile Non è solo il titolo del suo ulti...
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di Claudio Facchetti
A tu per tu con Enrico Ruggeri
Un viaggio incredibile
Non è solo il titolo del suo ultimo bellissimo cd, ma
fotografa
la splendida avventura di un artista atipico del nostro
panorama. E tra rock, pop, elettronica e canzone d’autore,
è arrivato al suo decimo Sanremo. Tra gli applausi.
Mai
titolo è stato più azzeccato, viene da dire, di quello che compare sulla
copertina dell’ultimo doppio cd di Enrico Ruggeri: Un viaggio
incredibile. E un viaggio davvero incredibile è quello che ha compiuto, e
continua a fare, il cantautore milanese sui territori della nostra musica.
La prima valigia l’ha riempita di note punk, pop e new wave nel 1978,
quando spunta nei Decibel, gruppo che salirà persino sul palco del
Festival di Sanremo per eseguire Contessa e acchiappare i primi
successi.
A Enrico però la band va stretta e nel 1981 decide di intraprendere la strada da solista.
È un percorso che segue su due binari paralleli: il primo coltivando la
sua carriera personale, il secondo scrivendo per altri colleghi. Itinerari
spesso avventurosi, che però gli regalano tante soddisfazioni. Come le vittorie
a Sanremo nel 1987 con Si può dare di più insieme a Gianni Morandi e
Umberto Tozzi e nel 1993 con Mistero. Oppure come autore, firmando brani
diventati dei classici come Quello che le donne non dicono, eseguita da
Fiorella Mannoia, e Il mare d’inverno, cantata da Loredana Bertè.
Gemme di un canzoniere ricchissimo, che disegnano un artista che sfugge
agli stereotipi, capace di far confluire nei propri pezzi rock, elettronica,
pop, canzone d’autore infiorettati da testi mai scontati. Un artista sempre
curioso, che si dedicherà anche alla scrittura, con libri di poesie,
narrativa e, negli ultimi anni, gialli dagli ottimi riscontri di vendite, e a
esperienze televisive e radiofoniche, l’ultima delle quali a Radio 24 con il
programma Il Falco e il Gabbiano.
Oggi, comunque, è la musica al centro dell’attenzione,
con il ritorno di Enrico sotto i riflettori dell’Ariston per la decima volta
con l’ottimo brano Il primo amore non si scorda mai, che ha ricevuto
calorosi applausi e tanti meritati apprezzamenti. Come il doppio album Un
viaggio incredibile, con un primo cd contenente 9 inediti di
assoluto valore (più una cover) e 4 bonus tracks dedicate a David Bowie, e il
secondo cd con la rilettura di 15 celebri brani tratti dal suo
repertorio del periodo 86/91.
Insomma, passato e presente che si intersecano puntando
al futuro.
Hai tagliato il traguardo dei dieci Festival,
cosa che non tutti possono dire...
Sinceramente, dalla mia prima partecipazione nel 1980 con i Decibel, non
ho tenuto il conto e quando mi hanno detto che salivo sul palco dell’Ariston
per la decima volta, sono anch’io rimasto sorpreso. Non pensavo a tutto questo
tempo, forse perché ogni anno che si presenta il Festival, ragioni sul fatto se
è il caso di parteciparvi o no ed essendo un cantautore di una certa area, non
realizzi di esserci poi andato così tante volte.
Sei tra coloro che non avrebbero bisogno
di Sanremo. Cosa ti spinge a parteciparvi?
Ti ringrazio, ma il Festival rimane comunque una bella vetrina dove, in
quella settimana, si accende sulla musica una luce che in altre occasioni
difficilmente si trova in Italia. E questo ti fa risparmiare tempo ed energie
se stai per uscire con un cd e partire per un tour, come nel mio caso. E allora
perché non andarci?
Il brano che hai presentato ha spiazzato
parecchie persone. Dal titolo, ci si aspettava una ballad...
Il gioco è stato proprio questo. Tutti pensavano a una ballata di
rimembranze, come poteva evocare il titolo, e invece si sono ritrovati di
fronte a un brano robusto che coniuga rock, elettronica e canzone d’autore.
È una riflessione sulla vita che ci cambia...
È una canzone che esprime quello che eravamo e quello che siamo, come le esperienze che ogni persona fa lungo
la propria esistenza inevitabilmente la cambino nel carattere, nel modo di
vedere le cose. Poi, in senso più ampio, il “primo amore che non si scorda mai”
può essere riferito a qualsiasi cosa, da un’amicizia al primo disco che ti ha
fatto fremere…
Quale profilo hai voluto dare al cd
d’inediti?
Ogni volta che incido un album si rinnova quella che io chiamo una sfida
sonora, nel senso che suona diverso da ciò che si sente abitualmente in radio:
è un lavoro fatto da musicisti che non utilizza il solito pastone di groove
sempre uguale che si ascolta in tante canzoni.
Tra i brani più significativi, spicca La
badante.
Sono fiero di averlo scritto. È un quadretto dei giorni nostri con
protagonista una delle tante donne che, per poter mantenere dei figli
dall’altra parte del mondo, devono seguire i bambini o gli anziani di noi
occidentali perché non abbiamo più tempo per stare con loro. È una situazione
paradossale: una madre non può dare ai figli o ai parenti lontani il suo
affetto e lo deve invece riservare in qualche modo a dei ragazzini viziati o,
nel caso della canzone, a una vecchia.
Nel secondo cd, invece, “rileggi” alcuni
tuoi pezzi celebri. Come li hai affrontati?
Senza stravolgerli troppo, ritoccandoli qua e là per dargli una veste più
attuale, come d’altra parte faccio da tempo quando li eseguo in concerto, senza
però fargli perdere quell’identità, quel respiro per cui sono conosciuti.
Seguono, in ordine cronologico, i vecchi brani del periodo 1980-85 che ho
riproposto nel precedente cd, Pezzi di vita. Qui ci sono quelli che
vanno dal 1986 al 1991.
Da questi brani, ieri come oggi, esce un ritratto atipico del tuo essere artista: non
appartieni né alla scuola classica dei cantautori, né a quella più leggera.
Sono sempre stato convinto che la spaccatura tra musica
“seria” e pop può essere scavalcata. Perché non scrivere una buona canzone
facendo spettacolo, mettendoci il rock o l’elettronica, e dei testi non banali?
È una lezione, questa, che all’inizio il nostro cantautorato ha fatto fatica a
superare: c’erano brani con parole meravigliose, discreti nelle musiche,
scadenti negli arrangiamenti. E quando gli artisti salivano sul palco, nulli
sotto il profilo dello spettacolo. All’estero, per esempio, non era così, basta
pensare a David Bowie.
La tecnologia ha rivoluzionato il mondo
delle sette note in tutti i suoi aspetti. Non pensi si sia un po’ smarrito il
piacere di ascoltare musica?
È senza dubbio un altro pianeta rispetto al passato. Quando ero giovane,
con la risicata paghetta mensile dovevo scegliere quale disco comprarmi tra
quello dei Led Zeppelin, di Lou Reed o di Frank Zappa, roba tosta insomma… E
poi, una volta acquistato, tornavo a casa, strappavo il cellophane, guardavo la
copertina, lo mettevo sul giradischi e lo ascoltavo 50 volte. Sono ricordi
radicati nel mio immaginario. Oggi con un click ti arriva una montagna di
brani, di cui magari ascolti un minuto ciascuno. È chiaro che il tuo patrimonio
emotivo sarà completamente diverso.
Alla musica hai affiancato altre attività,
come scrittore, conduttore
Direi di sì, fare esperienze diverse è sempre stimolante, anche se quella che seguo con più passione è la
scrittura, che curo da tempo. La mia vocazione è quella di raccontare storie
agli altri e l’ho fatto con ogni mezzo, credo con risultati apprezzabili. In
tv, tuttavia, ho constatato che non sfuggivo purtroppo a un algoritmo preciso:
se facevo programmi di qualità, l’audience scarseggiava; al contrario, il
gradimento saliva. Per fortuna, in radio, con l’ultima serie di trasmissioni,
intitolata Il Falco e il Gabbiano, qualità e gradimento sono coincisi,
con mia grande soddisfazione.
I tuoi ultimi libri sono dei gialli. Cosa
ti piace di questo genere?
Io non ho la predisposizione enigmistica degli scrittori di thriller.
Dunque, per me, il giallo è un pretesto narrativo per mettere una persona
qualunque di fronte a qualcosa di straordinario e capirne le reazioni. <