Il limite non limita
persone di Nicola Di Mauro La debolezza come forza Il limite non limita Don Claudio Campa ha raccolto in un bel libro, “Elo...
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persone
di
Nicola Di Mauro
La debolezza come forza
Il
limite
non
limita
Don Claudio Campa ha raccolto in
un bel libro,
“Elogio della fragilità”, la sua
esperienza di disabile.
Perché bisogna “guardare la realtà
con gli occhi del coraggio di
andare oltre”.
L’esperienza della disabilità
comporta un senso di sfiducia, alienazione, sconforto che tutti provano dal
primo momento in cui sperimentano la propria fragilità. È successo a don
Claudio Campa (parroco di una comunità parrocchiale situata a Collegno,
vicino Torino: la chiesa di San Massimo), il quale soffre di sclerosi multipla.
Egli, però, ha saputo cogliere gli aspetti positivi
della sua disabilità. Ha esposto la propria esperienza in un libro dal titolo
indicativo: Elogio della fragilità (Edizioni Centro Volontari della
Sofferenza, Roma, pp. 258, € 10,00). Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua
sofferenza.
Don Claudio, lei è disabile a causa di una
patologia degenerativa. Il toccare con mano la propria debolezza ha sempre come
prima reazione amarezza, sconforto, tristezza. Poi, forse, tutto questo può
cambiare, quasi a farci vivere una trasfigurazione, una sorta di adattamento
alla nuova situazione...
La malattia non chiede permesso,
giunge inaspettata. Entra all’improvviso, s’insedia, conquista i nostri spazi e
pretende. Crea un dinamismo che spaventa, disorienta, disillude, abbatte,
deprime. Ciò mi accadde nel giugno 2008, quando appresi la diagnosi. Mentre gli
accertamenti clinici procedevano, cercavo di capire cosa la sclerosi multipla
significasse per me: un progetto di vita in continuo adattamento alla lenta
perdita della funzionalità del mio corpo. Una sfida che ho affrontato
ricercando nel quotidiano strategie per compensare le difficoltà oggettive.
Visite mediche e legali, nonché i tempi della terapia,
sono una realtà nuova da integrare nel mio contesto sociale; una sfida resa
possibile dalla speranza che mi rende certo non della guarigione, ma di avere
il Signore come compagno di viaggio.
Che cosa ha compreso da ciò?
La mia esperienza prende vita da una considerazione:
quando siamo feriti da chi preferiamo andare? Da un uomo forte e valoroso che
ci dica come mai ci accade questo e indica il rimedio? Oppure non preferiamo
forse andare a farci abbracciare da qualcuno che dice: «Conosco la tua
condizione, comprendo il tuo dolore, l’ho vissuto e ti capisco, cerchiamo
insieme come tu possa continuare a essere il vero protagonista del tuo progetto
di vita?».
Posso allora apprezzare il dono della presenza
dell’altro, non sarà la forza a darmi sapore, ma la debolezza condivisa,
consegnata. Io sono fragile e ti racconto la mia fragilità e sono
convinto di aver bisogno della tua, così come a te serve la mia; uno scambio
reciproco utile a vivere qualsiasi condizione mantenendo la dignità della
persona.
Ma come
è andata?
Ero pronto ad affrontare la sfida,
mi sentivo quasi fortunato, potevo vivere attraverso la mia fragilità una
“comunione speciale” nel continuare a vivere il mio ruolo di parroco, nella
presenza di alcuni veri amici, nel sostegno di una comunità, pronti a offrirmi
il braccio per condividere esperienze, preghiere e celebrazioni, campi,
l’Estate Ragazzi, ecc. e progettare nuovi orizzonti.
Nel suo libro, con un titolo che è quasi
una provocazione, Elogio della fragilità, si afferma con tanto di
riflessioni, esperienze vissute e testimonianze che “il limite non limita”. Che
vuol dire?
Il titolo è sì un po’ una provocazione, ma ho voluto
accettare la sfida, non so se ci sono riuscito nel descrivere l’elogio
attraverso la mia fragilità. “Il limite non limita”, se si riesce a guardare la realtà con gli occhi del coraggio di
andare oltre; se si è capaci di non concentrarsi su «che cosa non posso
più fare», ma «su quali possibilità ho di fronte a me», «su che cosa posso
ancora fare e come posso farlo»; se si riesce a guardare al futuro con gli
occhi della speranza.
Tutti conosciamo il bisogno
profondo di essere accolti e accettati per quello che siamo, proprio perché
tutti abbiamo dei limiti, ma è proprio il nostro limite che realizza il bisogno
primario dell’uomo di “essere sociale”, di entrare in comunione con l’altro, di
aiutarsi reciprocamente a crescere.
Vale a
dire?
Sperimento che l’avere una disabilità impone limiti
oggettivi, ma ti fa scoprire nuove potenzialità e interessi, aggiunge
motivazioni nuove a ciò che già fai, non ti fa divenire necessariamente triste,
continua a chiederti di giocare l’avventura della vita, ti chiede di avere come
bussola delle tue scelte la normalità. I limiti si interiorizzano, si
accolgono, ci chiedono di sperimentarsi per affrontare la vita sulle ruote con
serenità, sicuri che l’altro ci vuole aiutare, ma non sostituire. Ecco come
continuare a esprimere la propria personalità!
Handicap,
disabilità, malattie, crisi, sconfitte, disagi, tante cose di cui si fa
quotidianamente esperienza rappresentano fragilità. Nella seconda lettera ai
Corinzi, San Paolo riporta: «Ti basta la mia grazia. La mia forza si manifesta
pienamente nella tua debolezza». Quanta verità in questo versetto?
Pensando alle nostre esperienze, ci
accorgiamo che le nostre fragilità possono diventare “tabernacolo di
Dio”, un luogo dove Dio ci parla. Le nostre storie personali possono diventare
spazio in cui riconosciamo il dono gratuito dell’amore di Dio. La fragilità ci
fa comprendere la grandezza del Suo amore che ha scelto di legarsi a gente
debole come noi. E a noi deboli ha affidato il grande dono; un atteggiamento
inverso rispetto all’uomo che cerca alleanze in chi è forte e potente.
Le parole di San Paolo ci fan capire che nelle
situazioni negative Dio fa fiorire la speranza e sono un invito a cogliere la
bellezza per ciascuna persona disabile di poter osare, giocandosi in numerose
esperienze, che finché non sperimentate, sono impossibili, ma se realizzate,
lasciano competenze nuove.
Fede e
disabilità. Quale rapporto si instaura?
Per capire il legame tra fede e disabilità dobbiamo
mettere a fuoco l’atteggiamento di Gesù con i disabili del Vangelo: Lui
partecipa a realtà in cui certe persone si trovano, con tratto garbato, adatto
a loro. La Sua
cura si manifesta attraverso il dare loro la parola, nel domandare il loro
desiderio, che cosa vogliono.
Gesù cammina e chiede ai discepoli di Emmaus: «Di che
cosa stavate parlando?». Al pozzo si siede con la Samaritana e le chiede:
«Dammi da bere». Anche dopo la risurrezione, chiede: «Perché piangi?» e «Che
cosa cercate?», e sul lago domanda: «Avete qualcosa da mangiare?». Gesù sa che
fare domande è più importante che offrire risposte. Così
inizia anche il dialogo con il cieco Bartimeo: «Che cosa vuoi che io faccia per
te?». Gesù ascolta la sofferenza, il desiderio, la volontà.
Nell’incontro con i malati fa appello alle nostre
risorse interiori. La cura, la vicinanza, la presenza, tutto questo è straordinario! Ecco l’atteggiamento che ciascuno deve
trasformare in un aspetto del suo stile di vita. Ciò infonde serenità in chi
vive una situazione di fragilità.
Ascolto,
condivisione, accoglienza sono atteggiamenti, dunque, che contribuiscono a
valorizzare la fragilità come qualcosa che unisce, arricchisce, come qualcosa
di bello, positivo.
Il nostro limite è il luogo della relazione e della comunione. Un atteggiamento che segna
un passaggio interiore, una “conversione”, un cambiamento radicale della
propria qualità di vita. La fragilità rende forte l’uomo, mentre la potenza lo
distrugge, lo riduce a frammenti. Attraverso la mia esperienza, ho imparato ad
amare la mia fragilità. Vivo con gratitudine, ce la metto tutta, sapendo che la
vita è sempre bella continuando ad amare e accettando di essere amati.
Che
cosa dire ai giovani che vivono l’esperienza della fragilità?
Vorrei invitare i giovani alla “trasgressione” in modo
positivo. L’uomo vuole andare al di là, oltre e trasgredire andando oltre il
suo limite, in modo positivo, facendo che cosa? Nel proprio limite accoglie
l’altro, nel limite di ciascuno si viene accolti dall’altro. Questa è la
trasgressione della comunione, dell’amore, della vita per cui siamo fatti,
senza fine; trasgredire all’infinito, perché siamo fatti per qualcosa di più.
Ciascuno di noi è così: abbiamo tutti bisogno dell’altro.
Partendo dalla mia esperienza personale, ho scoperto
tanti modi di spingere una carrozzina, può essere un atto meccanico,
necessario, allora diviene faticoso perché sull’accompagnatore ricade il peso
di due persone, e sente talvolta di non farcela, ma in una relazione di
amicizia, di stima, di fiducia diviene una sfida, si vive il coraggio di
“andare oltre” insieme.
Ecco che nello spingere quella
carrozzina si vivranno insieme esperienze, o anche solo la forza di uno
sguardo, di un sorriso, che lasciano trasparire messaggi di vita, un confronto
profondo sul perché della malattia, che mettono in discussione le assolute
certezze personali. Chi spinge può aiutare una persona in difficoltà a
migliorare la qualità della sua vita. La persona in carrozzina può aiutare
l’altro a capire la precarietà. Una trasgressione capace di passare dalla
pedagogia dell’io a quella del noi. <