Un canestro pieno di vita
SPORT di Stefano Ferrio Punti che valgono tanto Un canestro pieno di vita Si chiama “baskin” ed è una bella variante del basket....
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SPORT
di
Stefano Ferrio
Un canestro
pieno di vita
Si chiama “baskin” ed è una bella variante
del basket. Perché lo possono giocare tutti: uomini e donne, normodotati e
disabili, principianti e professionisti. Basta la voglia di divertirsi e avere
un cuore.
Partite di
un gioco simile al basket, dove cade ogni confine e l’impossibile diventa
puntualmente possibile. Partite emozionanti, incertissime, spettacolari, coinvolgenti,
da vivere rigorosamente “anima &
corpo”. Partite decise dalla poderosa schiacciata di un Romeo alto più di
due metri, esattamente come dalla palla perfettamente infilata in un canestro
molto più basso dalla compagna di squadra Alice, che deve farsi accompagnare in
campo da chi spinge la sua carrozzina.
Date queste
premesse, cercasi, non disperatamente, ma di certo ostinatamente, regista per
film intitolato Baskin. Sarà un successo, probabilmente mondiale, a patto di
raccontare la trama così come si è sviluppata, e si sta tuttora sviluppando,
nei suoi primi diciassette anni.
Quella pazza voglia di giocarlo
Sulla
carta, questa convinzione potrà sembrare peregrina a chiunque, tranne a quanti
hanno visto che cos’è il baskin, cogliendone la natura profondamente rivoluzionaria o, meglio, il suo senso di traguardo
storico.
Se,
infatti, lo sport come noi lo conosciamo, è una vicenda che inizia quando lo
inventano i greci, accendendo la fiamma olimpica nell’ottavo secolo prima di
Cristo, ci sono poi voluti quasi tremila anni per escogitare finalmente una
disciplina “agonistica” di squadra, con tanto di vincitori e sconfitti, dove è
prevista, come necessaria, la partecipazione
di “tutti”, ovvero uomini e donne, normodotati e disabili di qualsiasi
gravità, praticanti e principianti.
Qui si
comincia a capire perché qualcuno deve girarlo, questo film che, in attesa di
vederlo, può già scorrere liberamente nell’immaginazione di quanti decidono di
accostarsi al baskin, sentendosene inevitabilmente attratti, pervasi, tentati
da una pazza voglia di provare a
giocarlo.
Tutti sul parquet
Prima
scena, anno 2001, una palestra di
Cremona piena zeppa di rovelli, ovvero i pensieri condivisi da Fausto
Capellini, prof di educazione fisica alla media Virgilio, e Antonio Bodini,
ingegnere la cui secondogenita, Marianna, convive con i problemi generati da
una nascita prematura.
I due
iniziano a interrogarsi non tanto su quale “sport per disabili” far giocare
alla ragazza, il che può anche equivalere a separarla dai compagni, bensì sulla
possibilità di inventarne da zero uno nel quale possa misurarsi alla pari con coetanei normodotati.
Sarà perché,
con i loro tre metri e cinque centimetri di distanza dal suolo, i canestri da
basket hanno l’aria di essere cose riservate a supermen alti almeno un metro e
novanta, ma sono proprio questi cesti a concentrare le attenzioni di Cappellini
e Bodini fino a condurli, fra esperimenti e studi teorici, a elaborare una
prima, fondata e articolata idea di un basket che non può più chiamarsi così,
bensì baskin, dove la desinenza “et” cede il posto alla “in” con cui richiamare
di primo acchito la parola “inclusione”.
La svolta
avviene nel 2006, con la costituzione dell’Associazione Baskin, creata per
diffondere la nuova disciplina su tutto il territorio nazionale. Da quel
momento si condividono i principi, soprattutto di pensiero, di un regolamento che si fonda su queste basi: normale
campo da basket, pallone da minibasket, due canestri supplementari alti due
metri e venti, più un eventuale quinto ancora più basso per chi ha handicap di
un certo tipo.
Partite
di ventiquattro minuti, suddivisi in quattro tempi da sei, fra due squadre
composte da un massimo di quattordici cestisti, sei dei quali in campo,
soggetti a cambi illimitati, e con l’obbligo di far entrare tutti sul parquet entro il suono finale della sirena.
Come si
avrà già avuto modo di intuire, il nocciolo della questione è costituito dalla composizione del sestetto impegnato sul
parquet. I giocatori sono infatti divisi in fasce che, dalla 5 alla 1, sono
costituite nell’ordine da: cestisti praticanti, normodotati o disabili
autosufficienti nel movimento, normodotati o disabili in possesso del tiro nel
canestro regolamentare, disabili in grado di guidare autonomamente la
carrozzina, disabili che si muovono con l’aiuto di chi muove la loro
carrozzina.
Per gli
ultimi due ruoli, i cesti di riferimento sono quelli più bassi. Assegnando
punti da cinque a uno, sulla base della fascia di appartenenza, ai sei
giocatori in campo, la somma non deve mai superare il numero 23, che è per inciso il numero di leggende del basket
come Michael Jordan e Le Bron James.
Dobbiamo
fermarci qua e, se lo facciamo, è per due ragioni. La prima: come si sarà
capito, la coesistenza di “player” fra loro così diversi comporta un mare di regole a proposito di
marcature, modalità di tiro, infrazioni di tempo, uso di mani e piedi e, in
caso di necessità, dimensioni della palla, adattabili a giocatori che
possiedono determinate caratteristiche limitative.
La
seconda ragione è però più importante della prima: l’unico modo per capire fino
in fondo il baskin è giocarlo.
Certo, andare a vedere una partita aiuta a entrare nei dettagli del
regolamento, gustando i contenuti agonistici del match legate a punteggio e
scorrere del tempo.
Ma il
grande salto si compie unicamente entrando a far parte di una squadra che non chiude le porte a nessuno: né a
nonno Gino, che a 80 anni vuole provare l’ebbrezza di una “bomba” da tre punti
mai provata prima, né a Filippa, finalmente “libera” di fare una cosa senza
l’aiuto di nessuno, cioè tirare la sua palla verso il suo canestro, né a
Boateng, spilungone nigeriano su cui hanno messo già gli occhi le società
cestistiche della sua città.
Ciò che
rende il loro assieme altamente spettacolare si chiama “gioco di squadra”,
ovvero un’alchimia di passaggi secondo cui non appena un “centro” di serie C
passa la palla a un paraplegico che non vede l’ora di riceverla, il pubblico è
di fronte a una variazione di scenario, e di regola, ad alta tensione emotiva.
Per
fortuna, le opportunità per assistere a una partita o a un torneo, sembrano
solo destinate a moltiplicarsi. L’avventura iniziata a Cremona, che ora si
fregia – perfino sui cartelli di ingresso al centro urbano – del titolo di
“Città del Baskin”, si sta progressivamente espandendo in tutta Italia. Svolto
alla fine del 2017, un accurato censimento dava notizia di una diffusione
estesa a discreta parte della penisola, di circa
100 squadre costituite e di oltre quattromila tesserati.
Ma sono
dati che possiamo considerare in costante aumento, a giudicare dal volume crescente
di un calendario che attualmente prevede nove
campionati su base regionale (tre in Lombardia, e uno in Veneto,
Piemonte-Valle d’Aosta, Marche, Emilia, Toscana, Sicilia e si stanno
aggiungendo Puglia, Calabria e Friuli), una Coppa Italia organizzata a
Carugate, in provincia di Milano, e una nascente attività europea dalle
incoraggianti prospettive.
I vuoti
da colmare sono ancora tanti. Anzi, considerando che a baskin giocano tutti,
sono infiniti. Cercasi film che
racconta tanta, esagerata Bellezza.