Ahmad Joudeh: Ballando sui tetti

PERSONE di Ilaria Beretta A tu per tu con il ballerino Ahmad Joudeh Ballando sui tetti Nella Siria martoriata dalla guerra, la s...


PERSONE
di Ilaria Beretta

A tu per tu con il ballerino Ahmad Joudeh
Ballando sui tetti
Nella Siria martoriata dalla guerra, la sua passione per la danza era malvista, anche dal padre. Lui non si è fermato e oggi è finito a ballare persino con Roberto Bolle.

Se l’è fatto tatuare sul collo, proprio dove i guerriglieri islamici fanno cadere la lama per eseguire la condanna a morte dei loro prigionieri. Perché Danza o muori – il titolo della sua autobiografia appena pubblicata da DeAgostini – è soprattutto il motto della vita di Ahmad Joudeh.
La storia di questo ballerino di 28 anni comincia a Damasco, in Siria, e precisamente nel quartiere di Yarmouk, dove abita insieme ad altri profughi palestinesi. Nella casa di famiglia costruita dal nonno che porta il suo stesso nome, Ahmad cresce come un bambino normale finché – intrufolandosi nel buio della platea di un teatro durante una rappresentazione – scopre la danza. Un amore che Ahmad deve coltivare di nascosto, visto che il padre non approva la disciplina, ritenendola una passione da ragazze.
Ahmad prova prima le coreografie chiuso nella sua camera e poi sgattaiola alle lezioni senza farsi vedere, ma il segreto non può durare per sempre: il padre lo scopre e tra i due inizia un rapporto tumultuoso che porterà anche alla separazione dei genitori.
Nel frattempo in Siria scoppia la guerra e Yarmouk si trasforma in un campo di battaglia, dove l’impresa è restare vivi. Ciononostante, Ahmad non vuole interrompere le sue lezioni di ballo e decide di non lasciare la città, mettendosi più volte in pericolo. Mentre Damasco cade un pezzo alla volta, Ahmad partecipa a un reality show libanese per aspiranti ballerini ma viene eliminato per motivi politici. Come se non bastasse, arriva anche per lui la chiamata per arruolarsi nell’esercito…
Ad Ahmad non resta che ballare: su uno dei pochi tetti rimasti in piedi a Yarmouk, filma la sua performance e la carica su YouTube. Quel video arriva a un reporter olandese, che decide di cercare Ahmad e raccontare al mondo la sua storia. Sarà proprio quel reportage a convincere il Dutch National Ballet di Amsterdam a chiamare il giovane ballerino siriano nel suo corpo di danza. Così, dal 2016 ad oggi, Ahmad ha fatto carriera: ballando prima al Parlamento europeo e poi – nel gennaio 2018 – persino con Roberto Bolle, considerato uno dei più grandi danzatori al mondo.


L’intervista

Ahmad, quando hai scoperto la danza?
A 8 anni. Da quel momento in poi – anche quando frequentavo la scuola dell’Enana Dance Theatre – ho sempre danzato, ma ho dovuto farlo in segreto perché nella mia società ballare non era accettato.

In particolare tua padre non voleva. Come te lo ha impedito?
Ha fatto molte cose per bloccarmi, per esempio mi picchiava. Mi ha impedito di vivere la mia infanzia come avrei voluto. A un certo punto mi ha anche detto «O danzi o studi» e io gli ho replicato «O danzo o muoio».

Abitavi in un quartiere per rifugiati palestinesi. Com’era la vita nel campo profughi?
È stata una bella vita. Sono cresciuto con la mia famiglia, il nonno, la nonna e i miei zii. Con loro mi sentivo un principe: non mi sono reso conto di quello che c’era al di fuori della mia famiglia, finché non ho iniziato a voler ballare. Finché sono rimasto nel campo profughi e ho vissuto come tutti gli altri, sono cresciuto bene: non conoscevo la vita al di fuori di quella realtà e perciò la accettavo.

Tuo padre è un rifugiato palestinese e tua madre una siriana, ma a te nessuno Stato concede la nazionalità: cosa si prova a non avere patria?
Prima di arrivare in Europa, mi sentivo semplicemente siriano. Quando sono arrivato qui, mi sono accorto di non avere una nazionalità: me lo hanno comunicato al telefono ed è stata una sensazione orribile.
A un anno dal mio arrivo ad Amsterdam, ho fatto domanda per avere lo status di rifugiato e ottenere asilo: in quel momento ho scoperto la mia situazione. Poco alla volta, però, ho capito che non è importante non avere documenti e nazionalità. Infatti io ho un’identità: sono un ballerino, un artista e soprattutto un essere umano.

E poi nel 2011 è arrivata la guerra che ha distrutto il tuo quartiere, ucciso 5 persone della tua famiglia e ti ha costretto a vivere in una tenda sul tetto della casa di un amico. Qual è il ricordo peggiore del conflitto?
Sono tantissimi i ricordi terribili di quel periodo. In quei momenti però era come se non avessi sentimenti: ci mettevo tanto a capire quello che mi stava succedendo. Per esempio, solo dopo un po’ che la mia casa era stata bombardata, ho realizzato che non avevo più un posto dove vivere. Oppure mi fermavo in bicicletta all’improvviso e mi dicevo: «Ma come mai io sono sopravvissuto? Perché quel proiettile non mi ha preso? E il cecchino non mi ha centrato?». Mi sono chiesto tantissime volte perché fossi ancora vivo; solo in Europa ho avuto la risposta: sono vivo per raccontare questa storia.

Una situazione orribile. Eppure, scrivi che anche a scappare da un posto distrutto ci vuole coraggio. Perché?
Bisogna riconoscere quello che ti è accaduto. Devi rimettere insieme tutti i pezzi e serve coraggio per ricominciare da capo.

Quindi per un po’ sei rimasto a Damasco e – oltre a prendere lezioni – hai fondato una scuola di danza per bambini orfani. In quella situazione avevano bisogno proprio del ballo?
Quando danzi presenti te stesso, sei costretto a mettere da parte la timidezza, acquisti sicurezza e riesci a superare i traumi. Con la guerra vedevo i bambini che stavano agli angoli e si nascondevano: invece facendo movimenti e saltando davanti allo specchio, si sentivano liberi. Con la danza capivano la loro forza e riuscivano ad affrontare le difficoltà della vita.
Quei bambini hanno imparato che possono competere tra di loro in maniera positiva, non litigando e usando armi. Mi auguro proprio questo per la Siria: che ognuno mostri le proprie competenze senza bisogno di fare la guerra. Era così prima del conflitto: le famiglie erano orgogliose dei propri figli per i diplomi che ottenevano: adesso invece mostrano la loro forza imbracciando le armi.

«Yarmouk – scrivi – mi perseguiterà per sempre, mi resterà addosso come un marchio di fabbrica». Se potessi, sceglieresti un’altra vita?
Ripeterei tutte le mie esperienze passate: da ogni situazione negativa sono riuscito a costruire la mia vita di oggi e quello che sono.

Com’è adesso il rapporto con tuo padre?
Adesso siamo amici! L’ho invitato ad Amsterdam a vedermi ballare, dopo 11 anni in cui non eravamo in contatto. Mi ha detto: «Sono triste per tutto quello che ti ho fatto passare e felice perché sono molto orgoglioso di te».
Mio padre è stato egoista: si vergognava di avere un figlio ballerino perché non era una cosa accettata nell’ambiente in cui vivevamo. Solo dopo che mi ha visto danzare, ha capito quanto era importante per me: dal momento che oggi vive a Berlino, forse ha anche cambiato la sua mentalità e non giudica più. Diciamo che ci stiamo conoscendo adesso…

Da Damasco ad Amsterdam: com’è stato?
Venire in Europa è stato un shock culturale: mi sono serviti sei mesi per riuscire a capire cosa avevo intorno. Quando lasci il tuo Paese d’origine, sei come un orfano: devi imparare tutto da capo.
Ora sono felice: sono cresciuto all’europea, conosco i miei doveri, le mie responsabilità e i miei limiti. Al momento sono focalizzato sulla danza e non ho una grande vita personale: vivo questo momento e sono sicuro che crescerò e migliorerò ancora.

Hai una carriera da ballerino professionista ben avviata e sei persino riuscito a ballare con Roberto Bolle, avverando il tuo sogno. Ma ne hai altri, di sogni?
A breve mi piacerebbe ballare all’Arena di Verona e a Roma. A lungo termine, il mio sogno è di fondare una compagnia di danza a livello nazionale in Siria.

Vivevi in una casa di famiglia ma «avevi la casa contro», ora sei ad Amsterdam ma non è proprio casa tua... Cos’è: casa?
Non lo so ancora. Una volta ho letto in un libro che «dovunque riesci a galleggiare quella è casa tua».

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