Black Sugar

L’esplosivo ritorno di Zucchero Black Sugar Nel nuovo cd dell’artista emiliano emergono forti le radici dell’amata musica nera. In atte...

L’esplosivo ritorno di Zucchero

Black Sugar

Nel nuovo cd dell’artista emiliano emergono forti le radici dell’amata musica nera. In attesa dei dieci concerti di Verona.

  Dieci concerti straordinari apriranno l’autunno di Zucchero. Tornato attivo discograficamente dopo circa 6 anni da Chocabeck con l’album Black cat, “Sugar” Fornaciari inaugura una stagione live ricchissima di impegni.
Artista italiano da esportazione, sarà impegnato con il tour in Italia e all’estero dopo il successo del cd. Il via verrà dato dalle dieci serate che terrà all’Arena di Verona, dal 16 al 28 settembre. Abbiamo parlato con lui di questo appuntamento e del nuovo, vendutissimo album.

L’Arena di Verona è una cornice meravigliosa: suonerai lì per ben dieci sere...
E sarà una cosa straordinaria, una sorta di grandissima festa. Saranno gli unici live che farò in Italia per il 2016, una sorta di anteprima del tour internazionale in cui presenterò Black cat. Non voglio anticipare troppi particolari, ma queste serate avranno come corollario vari appuntamenti che si svolgeranno anche fuori dall’Arena, con band jazz-blues che si esibiranno in città.

Sappiamo che hai voluto dare spazio anche a cantanti emergenti.
Sì: il 19 e il 26 di settembre ci saranno attività speciali. Il 19 ci sarà una serata dedicata a loro, organizzata con Twitter. Il 26 sul palco saliranno artisti, nazionali e internazionali, a cui verrà data la possibilità di farsi ascoltare in un contesto importantissimo come l’Arena.

Hai annunciato i concerti di Verona prima dell’uscita del disco. Come mai hai fatto questa particolare scelta?
Penso che bisogna dare sempre il meglio di sé e la molla per farlo è cercare di avere idee diverse, di non dare niente per scontato. Sicuramente questa dell’Arena è una sfida: non è facile riempire 10 date in un posto solo, e questa cosa mi mette voglia di correre. Per motivarsi al massimo bisogna aggiungere un po’ di pepe al proprio lavoro.
Si è parlato molto degli ospiti che saranno con te in Arena, tutte ipotesi: ci puoi svelare qualcosa in proposito?
A me sarebbe piaciuto avere Joe Cocker, Luciano Pavarotti, Lucio Dalla, Pino Daniele, Amy Winehouse, ma purtroppo non sono qui con noi (sono tutti scomparsi, nda). Ma ovviamente ho pensato a nomi all’altezza. Vorrei Sting, Eric Clapton, amici con cui ho già lavorato, però bisogna sempre sperare che coincidano gli impegni di tutti. Vorrei anche colleghi italiani: ad esempio, Jovanotti è già venuto a suonare con me a New York, chiamato all’ultimo minuto. Magari qualcuno arriverà a sorpresa, così sarà divertente anche per me.

Quali canzoni canterai?
Sicuramente darò molto spazio all’album nuovo. Sto valutando se meriterà di essere cantato per intero. Per riprodurre questo disco dal vivo ci vogliono tanti musicisti e tanti strumenti. Saremo 13 o 14 sul palco. 

Venendo a Black cat, cosa ci puoi dire su com’è nato questo disco?
È arrivato 5 anni e mezzo dopo Chocabeck e sono stati anni di ricerca. La mia preoccupazione era che le canzoni potessero suonare in modi diversi tra loro, visto che ho coinvolto nella realizzazione dell’album tre produttori, ma per evitarlo è bastato parlare con loro prima di iniziare a lavorare. Sono amici e si rispettano, non c’è competizione: hanno capito che il disco doveva suonare come un progetto unico, pur nelle diversità di stile.

Cosa ti ha ispirato le nuove canzoni?
Mi ha dato l’input il tour che ho fatto nel sud degli Stati Uniti: conosco bene quei luoghi, ma non ci avevo mai suonato prima. Quando inizio a scrivere un disco parto per prima cosa dal suono, non dalle parole. Lì ho pensato al rumore delle catene degli schiavi, alle voci nei campi di cotone, mi sono immerso in realtà raccontate al cinema da film come Django Unchained o Il colore viola.

Una curiosità: perché hai intitolato l’album “gatto nero”?
Non ho di certo pensato al gatto nero che porta sfortuna! Anzi, “Ehi, black cat!” è un saluto amichevole. Molti bluesman del passato avevano addosso un osso di gatto nero perché portava fortuna. Inoltre, suona bene come frase: black perché forse questo è il disco più “nero” che abbia mai fatto, a livello di suono; e cat, “gatto” perché è un animale libero, che fa i fatti suoi, è un po’ anarchico. Tutte queste motivazioni hanno fatto nascere Black cat, che è libero come un gatto.

Cosa intendi dire?
Che questo disco se ne frega, come i gatti. O almeno ho provato a farlo così, con quello spirito che si ha all’inizio della carriera: cioè si scrive senza pensare se una canzone può funzionare in radio. Poi inizi a chiederti se funzionerà, se verrà trasmessa, ti vengono dei dubbi, e allora scrivi brani solo pensando a “farli funzionare”: ad esempio, pensi che te li tagliano se vanno oltre i tre minuti e mezzo. E quando inizi a ragionare così, non va bene. Questo è un disco libero perché io ho cercato di essere libero da questi pensieri.

Partigiano reggiano ha fatto da apripista all’album...
Al di là del gioco di parole, è un ricordo romantico che ho della figura del partigiano, di un coraggioso che combatteva la dittatura. L’importante è che i partigiani ci abbiano liberato: quanto ai danni e alle malvagità, sarà la storia a giudicare. Quando sei in guerra mica vendi noccioline.

Nel suo testo c’è una parola, slémpito, che non è comprensibile ai più.
Vuol dire coraggio, serve energia, diamoci una mossa! È un termine del dialetto della zona dove vivo, tra Emilia Romagna e Toscana: la usa spesso un “menestrello” del posto, che gira per sagre.


C’è un messaggio che vuoi far arrivare a chi ascolta il  tuo album?
Un piccolo messaggio direi di sì: mi piacerebbe tirare su dei piccoli partigiani, per restare nella metafora; naturalmente ragazzi non armati, ma che sappiano stare insieme, coesi, che abbiano un ideale. Mi piacerebbe che fossero pronti a fare muro pacificamente contro qualcosa che non funziona. Mi piacerebbe fare loro da zio perché oggi vedo i giovani un po’ divisi, che si accontentano delle cose. Alla lunga, così facendo si troveranno male.

Una curiosità: ultimamente ti si vede spesso con questo cappello marrone che indossi anche oggi...
È un cappello usato nel film Gangs of New York. L’ho trovato in una bottega artigianale a Los Angeles, gestita da un signore messicano che raccoglie cappelli usati in pellicole storiche. Questo era lì in bacheca e il proprietario non lo voleva vendere, ma alla fine sono riuscito a convincerlo. Ne ho comprati altri dieci! 

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