Cosa c’è dentro il piatto
DOSSIER di Ilaria Beretta Cosa c’è dentro il piatto Sofisticazioni, importazioni di materie prime sospette, pesticidi vieta...
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DOSSIER
di Ilaria Beretta
Cosa c’è dentro il piatto
Sofisticazioni,
importazioni di materie prime sospette, pesticidi vietati, false etichette… Sono
solo alcuni dei pericoli in cui si possono imbattere… gli alimenti. Ma quanto
sono sicuri i cibi che mangiamo?
La bandiera italiana nel mondo si vede nel piatto. Maccheroni,
pizza, ma anche olio extravergine d’oliva e parmigiano reggiano: il made in Italy soprattutto in ambito
alimentare piace e traina il mercato, in patria e all’estero, tanto che basta un nome che suona italiano per
convincere il consumatore a comprare.
Non sempre però si tratta di un piatto di qualità e
tipico della gastronomia nostrana, anzi certe volte s’incappa solo in una
bufala… alimentare. È l’altro lato del made
in Italy, fatto di frodi, agropirateria e sofisticazioni che mettono in
pericolo la credibilità della buona
cucina italiana.
Anche la provenienza
delle materie prime importate nel nostro Paese spesso non è accertata e i
prodotti che arrivano non rispettano le caratteristiche richieste dalla legge. Dietro
alla tradizione italiana, dunque c’è una matassa ingarbugliata che – con la
nascita di un mercato globale anche per quel che riguarda la catena alimentare
– non fa che complicarsi coinvolgendo sempre più nazioni.
Anche perché col cibo si possono fare grandi affari
e i controlli – rispetto ad altri settori – sono ancora pochi mentre la vigilanza sulla merce che si sposta
da una parte all’altro del mondo non è coordinata nemmeno tra polizie confinanti.
Ai consumatori le trappole sono tese prima ancora
che i prodotti vengano commercializzati e cioè a livello degli ingredienti alla base di qualsiasi lavorazione
alimentare. La provenienza di materie prime dall’estero non è sinonimo
necessario di scarsa qualità visto che la sicurezza dipende dai controlli e dal
rispetto delle regole, ma i cultori del Made
in Italy avrebbero il diritto di sapere che molti prodotti che
costituiscono le fondamenta dei maggiori marchi alimentari nostrani, in Italia
ci arrivano abbastanza tardi.
Infatti, a parte
gli ortaggi che sembrano maturare benissimo sul suolo italiano (e dei quali
solo l’1% ci viene “prestato” dall’estero), carne, latte, frumento e pesce
prodotti da noi non bastano per il consumo che se ne fa e dunque alle industrie
alimentari non resta che importare i materiali necessari.
Il risultato è che – anche se quasi nessuno lo sa e
le aziende esportano pasta, spumante e formaggi in tutto il mondo garantendone
l’italianità – i nostri piatti sono ben poco tricolori e molto multietnici come mostra una recente mappa disegnata dalla
Coldiretti.
Dalla cartina si legge che il 70% delle carni di pecora e capra che consumiamo proviene
dall’estero, mentre per quelle bovine lo stesso dato si attesta intorno al 40%.
La carne suina e i nostri salumi – tradizionale preparato italiano – sono
invece stranieri per il 35%.
Il pesce
mediterraneo non sguazza in acque migliori e per prodotti ittici le aziende
italiane spendono oltre quattro miliardi l’anno di cui 67 milioni solo per i
crostacei e molluschi allevati in Cina.
Dall’Oriente importiamo anche il concentrato di pomodoro, nonostante gli
ortaggi non ci manchino. Anche il grano duro che finisce nella pasta italiana è
per metà coltivato fuori dallo Stivale, in Ucraina oppure addirittura nei campi
canadesi al di là dall’oceano.
Il grano
tenero destinato ai panifici invece s’importa “solo” per il 30%, proprio
come formaggi, yogurt e latte che arrivano per lo più da Germania e Slovenia.
Sempre dal continente americano si dirigono verso l’Italia le mandorle, i
legumi e il caffè grezzo in chicchi che dal Brasile viaggia in prima classe
costando alle nostre industrie circa 460 milioni di euro all’anno.
Il risultato di questi scambi commerciali è che
ogni anno dall’estero arrivano prodotti agroalimentari per un valore di 42 miliardi di euro: altro che
tricolore, nel nostro piatto c’è dentro mezzo mondo!
La spesa
all’estero tra convenienza e necessità
Tra i prodotti “immigrati”, ce ne sono alcuni di
cui dovremmo imparare a fare a meno visto che figurano nella lista nera dei più pericolosi in
commercio. Le nocciole coltivate in
Turchia, che l’Italia ha fatto arrivare per 295 milioni di euro, nel 2015 sono
state classificate come il prodotto più
tossico dell’anno per i livelli di aflatossine presenti oltre i limiti della
legge.
Stesso problema per le arachidi cinesi la cui importazione è aumentata negli ultimi anni
del 141% e per i pistacchi dall’Iran,
mentre i peperoncini indiani sono
stati messi sotto accusa per pericolo di contaminazione microbiologica. Anche tonno e pesce spada spagnoli rimpinzati
di metalli pesanti rischiano di far affondare la qualità.
Per fortuna, ci sono anche materie prime
provenienti dall’estero e lavorate in Italia che danno risultati eccellenti dal punto di vista nutrizionale e salutistico.
La bresaola proveniente dalla
Valtellina che è riconosciuta con la certificazione IGP (Indicazione Geografica
Protetta) può essere preparata anche con carne argentina che – una volta
arrivata in Italia – viene lasciata stagionare nella valle, un luogo senza
allevamenti ma perfetto per la lavorazione del prodotto secondo il metodo
tradizionale.
Ma perché le aziende preferiscono andare a far la
spesa oltre confine? Innanzitutto il costo del lavoro è più basso, poi le
tecniche di coltivazioni sono diverse e – soprattutto nei Paesi extraeuropei –
consentono l’uso di pesticidi a
basso prezzo, aumentando il raccolto ma abbassando l’asticella di sicurezza per
la salute dei consumatori.
C’è infine la questione dell’insufficiente
produttività italiana in campo agricolo che, da un lato è un fatto strutturale
e legato a regole di mercato comune, dall’altro deriva dallo spreco di suolo coltivabile che ogni
giorno viene buttato via per costruire complessi residenziali e centri
commerciali.
Secondo
dati raccolti da Coop, dal 1970 al 2013 gli ettari di superficie coltivabile
sono scesi da 18 a 13 milioni: un furto costante che sottrae alla campagna
l’equivalente di circa 40 campi di calcio di terreno al giorno.
L’universo
della contraffazione
Se la miscela di ingredienti provenienti da diverse
parti del mondo è tipica dell’era della globalizzazione, le frodi alimentari invece sono sempre
esistite. Già nel I secolo dopo Cristo, lo scrittore latino Plinio il Vecchio
descrisse la sofisticazione delle farine con grani meno pregiati e anche l’“alterazione”
di alcune spezie, mentre nel Medioevo – ci dicono le fonti – non era raro che i
fornai impastassero il pane con granaglie ammuffite.
Con il progresso tecnologico che ha permesso di
perfezionare le tecniche dell’inganno, i crimini nel piatto si sono moltiplicati
in un universo davvero complesso. Il primo “continente” è quello della
contraffazione che consiste nel creare
dal nulla un alimento simile all’originale, realizzandolo però con sostanze
diverse: basti pensare all’olio di semi, più volte spacciato per extravergine
d’oliva.
Almeno le basi di partenza sono esatte nel caso
dell’adulterazione e della sofisticazione alimentare, tecniche truffaldine per
modificare solo un componente della
ricetta originale che viene sostituito con ingredienti scadenti, come nel caso
del burro prodotto con grassi diversi da quelli del latte.
Gli agropirati si appropriano invece di marchi
prestigiosi e li applicano sull’etichetta di prodotti di qualità inferiore e provenienza diversa
dall’originale. Succede
così che sugli scaffali dei supermercati esteri finiscano il «Parmesao» e il
«Regianito», formaggi che ricordano il parmigiano-reggiano ma che con
l’originale non azzeccano né forma né sapore.
Il risultato è innanzitutto una perdita di soldi
per le aziende oneste: è stato calcolato che la contraffazione insieme all’Italian Sounding (l’uso di nomi italiani
su prodotti che non c’entrano nulla con la Penisola) sono costate all’industria
alimentare nostrana ben 60 miliardi!
Secondo un’altra indagine, il 97% dei sughi per
pasta commercializzati nel mondo come italiani sono in realtà imitazioni, così
come il 94% delle conserve sott’olio, il 76% dei pomodori in scatola e il 15%
dei formaggi. Da un lato dunque, queste bufale sono pericolose a livello
commerciale perché minano la credibilità di tanti prodotti e causano una
contrazione della ricchezza, dall’altro possono persino mettere a repentaglio la salute dei consumatori.
Le
frodi più comuni
A essere nell’occhio del ciclone per via di questi
scandali spesso e volentieri c’è l’Italia che – proprio per la sua tradizione
culinaria e l’abbondanza di prodotti di qualità provenienti dalle nostre terre
– si presta benissimo ad essere imitata. Negli ultimi dieci anni, le frodi a tavola da noi sono
più che triplicate anche per effetto
della crisi economica: è più facile ingannare chi ha poche risorse e deve per
forza orientarsi verso soluzioni a poco costo, dietro le quali, però, si
possono nascondere ricette modificate o ingredienti di bassa qualità.
Tra i prodotti italiani più coinvolti nelle frodi
degli ultimi anni c’è il vino.
Spesso viene dolcificato con zuccheri diversi da quelli dell’uva oppure la
bottiglia viene allungata con mosto concentrato e altri sottoprodotti. Nel 1986
l’aggiunta dell’alcol metilico a un vino di bassa gradazione provocò la morte
di 23 persone e portò alla cecità un’altra decina.
Per far somigliare l’olio di semi a quello d’oliva, invece, i truffatori alimentari lo
colorano di verde con clorofilla e betacarotene mentre dietro al latte “fresco” a volte c’è quello in
polvere oppure un’enorme quantità di acqua: più gravi sono i casi in cui
restano impigliati nel cartone residui di ormoni somministrati agli animali da
latte per stimolare la produzione, che però sono vietati.
Anche le
mozzarelle vengono sofisticate con l’uso di polveri oppure sostituendo la
tipologia di latte utilizzato: il guaio è che in questo caso le mozzarelle fake sono tali e quali alle originali e
per distinguerle bisogna analizzarle in laboratorio! Solo nel 2010, quando nei
supermercati vennero trovate mozzarelle blu per colpa di un batterio che le
rendeva non commestibili, tutti si accorsero della truffa…
Sogliole vendute per spigole o merluzzi al posto
dell’orata: la rete in cui rimangono intrappolati i pesci dopo essere stati tirati fuori dal mare è innanzitutto lo
scambio d’identità, ma altrettanto spesso prodotti congelati vengono fatti
passare per appena pescati.
Nel circuito del cibo da ristorazione capita invece che i pesci vengano ricoperti da
glassa per aumentarne il peso (e il prezzo), mentre cozze e molluschi sono venduti
senza essere stati adeguatamente depurati oppure rietichettati dai grossisti
dopo la data di scadenza. Tipica delle furbate nel piatto è anche la vendita di
carni di animali ingrassati con medicinali e ormoni fuori legge: riempiendo filetto
e lombata d’acqua, la tagliata sul fornello finisce per dimezzarsi.
Chi
controlla?
Come fare dunque per essere più sicuri di quel che
mangiamo? Anche se pochi lo sanno, a controllare sulle frodi alimentari in
Italia sono in molti. In primis, c’è l’ispettorato centrale
per la tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari.
Un nome lunghissimo, sintetizzato nella sigla
ICQRF, che rappresenta il braccio
operativo del Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali: gli
ispettori si accertano che l’uso di pesticidi, fertilizzanti e sementi nelle
coltivazioni sia regolare, ma controllano anche che le denominazioni di qualità
DOP, DOC, IGP e biologico siano davvero “certificate” su tutti i prodotti.
Nell’ultimo rapporto pubblicato dall’ICQRF sulle
attività svolte dal gruppo nel 2016, si legge che sono stati eseguiti ben
48mila controlli su oltre 53mila prodotti e 25mila operatori che hanno portato
al sequestro di più di 13 tonnellate
di prodotti alimentari per un valore totale di 12,5 milioni di euro.
Dall’analisi dei dati emerge anche un altro e
preoccupante fenomeno, ovvero la crescita inarrestabile del numero di prodotti
italiani contraffatti venduti via web.
L’anno scorso sono stati individuai 971 casi commercializzati sulle piattaforme
eBay, Amazon a Alibaba di cui la maggior parte sono finte bottiglie di Barolo e
Prosecco.
A combattere questo genere di irregolarità ci sono
poi le aziende sanitarie locali che – nelle diverse regioni d’Italia – vigilano
sull’igiene delle aziende e dei
centri commerciali oltre a raccogliere le segnalazioni dirette dei singoli
cittadini. Una sezione della polizia municipale, detta “annonaria”, gira nei
negozi per verificare le licenze commerciali e l’applicazione delle norme
sanitarie.
Sui
confini italiani ci sono poi i posti di ispezione
frontaliera, veri e propri uffici veterinari che controllano animali vivi e
prodotti di origine animale provenienti da Paesi extracomunitari, mentre per
gli alimenti provenienti dall’Unione Europea la stessa verifica viene fatta
dagli uffici veterinari per gli adempimenti comunitari (UVAC).
La stessa
cosa succede al porto dove la direzione generale della Pesca controlla le merci
importate mentre rimangono più in ombra gli istituti sperimentali di
zooprofilassi che fanno ricerca di
laboratorio proprio sugli alimenti di origine animale.
A questa rete di sicurezza si
aggiungono poi i nuclei
antisofisticazioni e sanità dell’arma dei Carabinieri. I cosiddetti NAS –
che oggi però hanno cambiato nome e si chiamano Comando Carabinieri per la
Tutela della Salute – sono un’unità specializzata nata nel 1962 con
l’obbiettivo di tutelare la salute pubblica facendo controlli sugli alimenti. Da
quell’anno ad oggi, i carabinieri impegnati sono quasi mille divisi in 39
gruppi sparsi su tutto il territorio nazionale.
I NAS lavorano analizzando i
flussi commerciali che sono tracciati da un codice a barre che viene “validato”
da un certificato doganale ad ogni passaggio di frontiera e che è certificato
dagli uffici di sanità veterinaria di confine. Conoscendo dove viene stoccata e
venduta la merce importata nel nostro Paese, i NAS possono verificare le segnalazioni di consumatori,
controllare i casi sospetti ma anche portare avanti indagini a campione.
Se si teme per la salute
pubblica, i carabinieri sequestrano la merce e ne inviano dei reperti
all’Istituto superiore di Sanità che conferma la contaminazione, dando ai NAS
il via libera per distruggere gli eventuali prodotti avariati. L’anno scorso
(2016) i carabinieri antisofisticazioni alimentari hanno fatto 56mila controlli, evidenziato 15mila
irregolarità, concluso 120 arresti, sporto 4.700 denunce e sequestrato 65mila
tonnellate di prodotti irregolari del valore di 750 milioni di euro.
Tra le segnalazioni carne scongelata e ricongelata, prodotti scaduti,
porzioni di sushi abitate da insetti e uova contaminate con il fitofarmaco
Fipronil. Non sono
stati risparmiati neanche ospedali e case di cura dove sono stati assodati
quasi 3mila illeciti, mentre 670 mense
scolastiche sono state beccate a mettere cibo biologico falso nel piatto
degli studenti.
L’Italia, la più sicura d’Europa
Anche
l’Unione Europea, di cui facciamo parte, ha il suo strumento di allerta per i casi di contaminazione di alimenti e
mangimi. Si chiama RASFF e dal 1979 avvisa i consumatori nel caso in cui la
salute pubblica sia in grave pericolo, ma solo dal 2016 mette insieme le
informazioni provenienti dalle autorità di sicurezza alimentari di diversi
Paesi europei rendendo le sue allerte più efficaci. Ogni “allarme rosso” viene
mandato online al sito web dell’organizzazione che tutti possono consultare.
Negli
anni le notifiche sono diminuite passando dalle 3.434 del 2012 alle
2.925 del 2016 di cui gran parte riguardano l’alimentazione umana. Nel 2016 più
della metà dei rischi notificati dal RASFF riguardava la presenza di microrganismi come salmonella ed escherichia coli, microtossine,
residui di pesticidi e metalli pesanti come mercurio, cadmio e piombo.
In Europa l’Italia sale sul podio per il numero di
segnalazioni inviate al RASFF soprattutto riguardanti pesce, frutta secca,
snack e frutta. Le cifre
però non ingannino: per sicurezza alimentare l’Italia è al primo posto al mondo. L’anno scorso la percentuale di sostanze
chimiche e pesticidi ritrovati complessivamente sui nostri prodotti è stata
dello 0,03%, molto meno rispetto alla media dell’1,4 nell’Unione Europea. E in
effetti le grandi contaminazioni alimentari degli ultimi anni – dalla mucca pazza
alle uova al fipronil – riguardavano prodotti importati dall’estero.
L’etichetta:
un’arma per la salute
Al di là dei controlli ufficiali che per forza di
cose non possono coinvolgere tutti gli alimenti sul mercato, ognuno ha il
diritto (ma anche il dovere) di vegliare sui cibi che finiscono nel proprio
frigorifero. Anche perché lo strumento per vigilare c’è e si chiama etichetta.
Sì, perché le normative dell’Unione Europea
impongono che la striscia di carta adesiva, obbligatoria per ogni prodotto, debba
contenere tutte le informazioni
necessarie per capire cosa ci sta dentro. Il problema è che spesso le
indicazioni sono scritte così in piccolo che sarebbe più facile decifrare un
geroglifico!
Anche quando le etichette sono a norma di legge,
però, bisogna almeno sapere da dove cominciare a leggerle e come interpretare alcuni segni. Per
esempio, accanto alla denominazione dell’alimento è obbligatorio scrivere lo
stato fisico del prodotto (“in polvere”, “concentrato” oppure “affumicato”):
così, con un po’ d’allenamento si può riconoscere a colpo d’occhio se un
prodotto è messo in vendita come “decongelato”.
In un’altra parte della confezione i produttori di
carne, pesce, frutta e verdura, miele e olio extravergine d’oliva devono
indicare il Paese di provenienza mentre recentemente il Consiglio dei Ministri
ha stabilito che chi produce o confeziona i propri alimenti in Italia deve
necessariamente indicare il luogo dello
stabilimento sull’etichetta per maggiore chiarezza nei confronti dei
consumatori ma anche per facilitare la tracciabilità da parte degli organismi
di controllo.
Anche la
data di scadenza spesso non è così chiara visto che ne esistono di due
tipi: sugli alimenti che deperiscono facilmente si legge «Da consumare entro
il» che equivale a dire che oltre quel limite temporale il prodotto non deve
essere consumato; più spesso invece si trova la dicitura «Da consumarsi
preferibilmente entro il» che significa che da quella data in poi gli alimenti
possono modificare sapore e odore ma possono comunque essere mangiati senza alcun rischio per la salute. Questa
differenza purtroppo è poco conosciuta e ogni anno si creano tonnellate di
sprechi alimentari proprio gettando prodotti ancora commestibili e – a
differenza di tanti altri – per niente pericolosi.
La
trappola del cibo etnico
Cinese,
sushi o messicano: con questi cibi si rischia di più. Lo dicono i
carabinieri del NAS che negli ultimi anni hanno avuto sempre più a che fare con
alghe, noodles e frutta esotica. Il cibo etnico piace infatti agli italiani che
spesso lo preferiscono anche alle ricette nostrane.
Ogni anno i grossisti che li importano e li
stoccano vedono crescere il proprio giro d’affari del 5-10%, tanto che dal 2007
al 2015 il fatturato del cibo etnico che passa nella grande distribuzione
organizzata è praticamente raddoppiato, raggiungendo i 160 milioni di euro.
Il rischio è che però – percorrendo un lungo
tragitto per arrivare nella nostra penisola – questi cibi si contaminino con muffe e parassiti oppure che gli
alimenti esotici non abbiano nemmeno le certificazioni di provenienza. Il
risultato è un enorme traffico nascosto di pollo e spiedini di gamberi potenzialmente
esplosivi per il nostro stomaco che, però, solo raramente finiscono sotto
sequestro.
Box
Tonno
al metallo pesante
Sano come un pesce, o forse no. Secondo Valentina
Tepedino, veterinaria e direttrice di Eurofishmarket, spada e tonno non sono
poi così salutari come ci hanno sempre detto i nutrizionisti. Intendiamoci: il
pesce è sì ricco di proteine e vitamine nonché di grassi buoni come gli omega-3
ma sguazzando in acque inquinate
rischia di accumulare sostanze così tossiche da cancellare tutte le ottime
proprietà.
Che fare? Sapendo che i composti più pericolosi viaggiano
soprattutto nei pesci di grossa taglia, la Tepedino ha elaborato il sito FishChoice. La piattaforma calcola la
sicurezza delle varie specie dei prodotti ittici, programma una dieta
settimanale in base al sesso e all’età e segnala
i pesci più rischiosi per la salute del consumatore.
La creatrice spiega però che escludere
completamente i pesci più inquinanti non si può e non è neanche giusto: meglio
mangiare di tutto un po’ e variare le
ricette in modo intelligente per non fare una scorpacciata di inquinanti.
Box
Anche
gli imballaggi fanno paura
Più ancora dei grassi saturi, nei fast food bisognerebbe temere gli imballaggi.
A dirlo è la rivista Environmental Science and Technology Letters che lo
scorso marzo ha pubblicato un rapporto dedicato all’impatto negativo per la
salute delle confezioni degli hamburger
da asporto.
Studiando le carte che avvolgono oltre
quattrocento preparati dei fast food
degli Stati Uniti, gli esperti hanno rilevato la presenza di composti chimici in un terzo degli
imballaggi. Le sostanze dette fluorate – che rendono la carta impermeabile ai
grassi ma migrano facilmente dalle confezioni agli alimenti – sono però molto
pericolose per la salute e possono causare problemi renali, colesterolo alto e
danni alla tiroide.
Anche a livello europeo, alcune
associazioni hanno condotto una ricerca simile e hanno ritrovato i composti fluorati in più della metà
degli imballaggi di carta e cartone usati nelle catene di fast food di cinque diversi Paesi, eppure ad oggi non esiste ancora
una legge sulla composizione delle confezioni alimentari.
Per non rischiare la propria salute,
dunque le soluzioni non sono molte: si può ordinare un hamburger senza contenitore oppure estrarlo
dall’imballaggio il più velocemente possibile.