L’uomo che “ripara” le donne
PERSONE di Carlo Tagliani Intervista esclusiva L’uomo che “ripara” le donne In occasione della Giornata internazionale per l’eli...
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PERSONE
di Carlo Tagliani
Intervista esclusiva
L’uomo che “ripara” le donne
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne l’incontro con il medico congolese Denis Mukwege, Il premio Nobel 2018 che dedica la propria vita a curare le vittime d’indicibili abusi. In un’intervista esclusiva per noi di Dimensioni Nuove.
È conosciuto in tutto il mondo come «l’uomo
che ripara le donne» perché lui le donne le “aggiusta” davvero. Medico,
specializzato in ostetricia e ginecologia, Denis Mukwege dedica la
propria vita a soccorrere e a curare le prime vittime della violenza che da
decenni insanguina la Repubblica democratica del Congo, definita dalle Nazioni
Unite «il peggior luogo del mondo per essere una donna».
Un
impegno per la vita
Nato il 1° marzo di sessantatre anni fa a
Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, zona poverissima, teatro di
conflitti etnici e di traffici illegali delle ricchezze minerarie, fin da
bambino Mukwege percepisce le
difficoltà e le condizioni di oggettiva
inferiorità in cui vivono le donne e decide di fare quanto è in suo potere
per aiutarle.
«Terzo di nove figli – racconta – sono nato
all’interno di una famiglia pentecostale. Mio padre era il pastore della
comunità e, ogni volta che lo accompagnavo a far visita ai malati, mi rendevo
conto che le pazienti dell’ospedale ricevevano cure insufficienti e non di rado morivano dopo il parto. Mi
domandavo con insistenza che cosa avrei potuto fare per alleviare le loro
sofferenze e decisi di studiare medicina».
Terminate le scuole superiori si
trasferisce in Burundi per frequentare la Facoltà di medicina e in Francia per
specializzarsi in ginecologia e ostetricia. Rifiutata l’offerta di stabilirsi
in Europa e il miraggio di una brillante carriera accademica, Mukwege – fedele alla propria
decisione – torna a Bukavu per impegnarsi
in prima linea contro la violenza sulle donne.
«La zona orientale del Congo – spiega –
possiede giacimenti di coltan, di tantalio, di cobalto e di numerosi altri
minerali essenziali per lo sviluppo dei Paesi industrializzati. Potrebbe
aspirare a trasformare il Paese in una delle nazioni più ricche del mondo e
invece la sua ricchezza si sta rivelando la sua disgrazia: da decenni, ormai, è
percorso da conflitti e violenze che
mietono vittime soprattutto tra le donne e i bambini provocando milioni di
morti.
Il mancato rinnovamento politico, unito
alla carenza di prospettive, ha trasformato il corpo delle donne in un campo di
battaglia e lo stupro in un’arma di
guerra che non viola solo il fisico di chi lo subisce ma la psicologia e la
coesione dell’intera comunità».
Centinaia e centinaia di donne della
Repubblica democratica del Congo, negli ultimi vent’anni, sono state e sono
ancora violentate e segnate per la vita.
Prima nel corso delle due guerre civili che tra il 1996 e il 2003 hanno visto
fronteggiarsi sul territorio congolese gli eserciti regolari di ben sei nazioni
e che hanno condotto alla presidenza del Paese prima il generale Laurent-Désiré Kabila e poi suo figlio
Joseph Kabila.
Poi durante il conflitto che tra il 2004 e
il 2009 ha contrapposto le province del Nord Kivu e del Sud Kivu in una guerra
senza esclusione di colpi tra l’esercito congolese e le forze ribelli del Cndp,
il Congresso nazionale per la difesa del popolo. E – ancora oggi – con le
continue razzie messe in atto da gruppi armati provenienti da Uganda, Ruanda e
Burundi che, con la complicità di bande armate di giovani congolesi,
costringono le comunità ad abbandonare le proprie terre per occuparle e
sfruttarle. I motivi di fondo, pur con sfumature diverse, sono sempre i
medesimi: controllare i giacimenti
minerari e l’accaparrarsi le materie prime per venderle al miglior
offerente.
«Per terrorizzare le comunità e
“convincerle” a non opporre resistenza – prosegue Mukwege – gli aggressori si accaniscono prevalentemente contro le
donne: le violentano in pubblico, non di rado davanti al marito o ai figli, e
le torturano quasi sempre con oggetti che provocano loro gravi lesioni e ferite all’apparato genitale».
Nel 1989, per offrire cure e sollievo alle
donne del Sud Kivu, Mukwege realizza
un reparto ospedaliero di maternità a Lemera, ma viene distrutto. Senza
perdersi d’animo ne costruisce un altro a Bukavu, la sua città natale, ma
anch’esso ha vita breve. Con fiducia e tenacia realizza – sempre a Bukavu – il
Panzi Hospital, che dal 1999 ha ospitato e curato oltre 50.000 donne vittime di violenze sessuali di ogni tipo.
Il
coraggio di non arrendersi
«Sono come un fazzoletto strappato: si devono prendere i fili e riannodarli uno a
uno». Così Mukwege descrive
le condizioni fisiche e psicologiche delle donne che varcano le soglie del
Panzi Hospital per essere “riparate”.
Il suo impegno e la sua dedizione sono
conosciuti e riconosciuti in tutto il mondo. Candidato al premio Nobel per la
pace, nel 2012 ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite per denunciare gli
abusi e le violenze cui sono sottoposte le donne congolesi e nel 2014 è stato
insignito dal Parlamento europeo del Premio Sacharov per la sua battaglia a favore dei diritti umani e della
libertà di pensiero.
In più occasioni ha chiesto l’istituzione
di un Tribunale penale internazionale per il Congo, consapevole che «quando si
parla di milioni di morti, di oltre 1.800.000
donne violentate, non si può non avviare un processo che permetta di
conoscere la verità e di fare giustizia».
Le sue denunce e le sue prese di posizione
lo hanno esposto a ritorsioni e a minacce: dopo il discorso all’Onu, per
esempio, ha subito un attentato da
parte di quattro uomini armati che è costata la vita a una guardia della sua
scorta e minacce alla sua famiglia che lo hanno spinto a un esilio forzato in
Svezia e a Bruxelles.
In seguito alla mobilitazione delle “sue”
donne, che ne hanno chiesto a gran voce il ritorno, Mukwege ha ripreso la propria missione al Panzi Hospital. «Se devo
fare un bilancio della mia vita – conclude – mi rendo conto che devo tutto alle donne e al loro coraggio,
a cominciare da mia moglie, con la quale identifico ogni paziente. Non so
quante volte, osservandole nei loro letti di dolore, mi sono disperato e mi
sono domandato: “Come potranno riprendersi?”. E ogni volta scopro che si
rimettono in piedi non per se stesse ma per le loro famiglie e per i loro
figli. Credo che da loro noi uomini abbiamo davvero molto da imparare».
25
novembre
Giornata
contro la violenza sulle donne
Quella che si celebra il 25 novembre è la diciannovesima
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Istituita
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, mira alla promozione
di attività per sensibilizzare l’opinione
pubblica su un tema decisamente attuale.
Una donna su tre – dicono le
stime – ha a che fare, nel corso della vita, con almeno un’esperienza di violenza fisica o
psicologica a casa, a scuola, al lavoro, per strada o sui
social media.
In alcuni
contesti – secondo l’Onu – la violenza sulle donne è accettata come normale e non viene punita. Per questo il 25
novembre vuole essere anche un monito per il raggiungimento di uno dei più
importanti Obiettivi di sviluppo sostenibile: non lasciare più indietro
nessuna, mettendo fine alla violenza.
La data
del 25 novembre è stata scelta per ricordare le sorelle Patria,
Minerva e María Teresa Mirabal, che combatterono contro il brutale
regime del dittatore Rafael Leónidas Trujillo nella Repubblica
Domenicana. Giovani donne di cultura, madri e componenti attivi della
resistenza, nel 1960, mentre si recavano a trovare i mariti che erano stati
ingiustamente incarcerati, furono intercettate dai servizi segreti del regime,
trascinate in un campo, torturate e picchiate a morte.
Simbolo
della lotta contro la violenza sulle donne, soprattutto in Italia, sono le
scarpe rosse, lasciate abbandonate su tante piazze del nostro Paese per
sensibilizzare l’opinione pubblica. Lanciato dall’artista messicana Elina
Chauvet attraverso una sua installazione, nominata appunto “Zapatos Rojas”,
è diventato presto uno dei modi più popolari per denunciare i femminicidi.